Il disabilty manager non è un gender manager

Il disabilty manager non è un gender manager

Il 71% delle aziende italiane assume persone provenienti da background svantaggiati. Ma sono ancora troppo poche quelle che hanno all’ interrno un disability manager. Eppure le possibilità per diffondere queste figure professionali, che si occupano di inclusione, esistono. Anche tra le Pmi.

 

Riconoscere e valorizzare qualunque forma di diversità. Non solo quella di genere, ma anche quelle legate all’età, all’orientamento sessuale, all’etnia, alla religione e alle condizioni di disabilità. È lo scopo che ha indotto, negli ultimi anni, molte aziende a introdurre la figura del disability manager che si colloca nel quadro del Diversity Management. Obiettivo: migliorare l’inclusione, il benessere e la qualità della vita di tutti i dipendenti. E di conseguenza accrescere la produttività. Secondo una recente ricerca condotta da Top Employers Insitute, l’assunzione di persone provenienti da background svantaggiati viene adottata dal 71% delle aziende italiane certificate dall’ente. Un dato che pone il nostro Paese al primo posto in Europa, dove la media è ferma al 61%. Molto positivi sono anche i numeri che riguardano i programmi di gestione della diversità, adottati dal 69% delle imprese tricolori. Eppure, nonostante questa crescita virtuosa, nelle aziende italiane i diversity manager sono ancora troppo pochi rispetto a quelle di paesi come Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna. Anche se qualcosa comincia a muoversi, soprattutto all’interno delle realtà produttive di maggiori dimensioni. A dare la spinta è stato il programma di azione biennale dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, che nel 2016 ha proposto alle aziende di istituire il disability manager e un osservatorio interno per promuovere l’inclusione dei lavoratori con disabilità.
«Il nostro ruolo è quello di elaborare e applicare tutte quelle politiche aziendali utili per valorizzare la diversità, allo scopo di realizzare un vantaggio competitivo», racconta Consuelo Battistelli, Disabilty manager in Ibm, una delle prime realtà in Italia a muoversi in questa direzione. Battistelli, colpita da disabilità visiva, ogni giorno affronta temi quali diversità di genere, differenze generazionali, multiculturalità, integrazione fra vita e lavoro, divergenze di orientamento sessuale e disabilità.

 

Tante sfide per una professione giovane

 

«Il ruolo del disability manager in Italia è nato nel 2009», spiega Battistelli. «Innanzi tutto con l’introduzione della Carta per le pari opportunità e l’uguaglianza sul lavoro, grazie al supporto del ministero del Lavoro e delle Pari opportunità, su iniziativa della fondazione Sodalitas, un’associazione nata dentro il sistema confindustriale italiano, partner accreditato dalle istituzioni europee, in primo piano nella promozione della sostenibilità d’impresa. Nello stesso anno, con il Libro bianco su accessibilità e mobilità urbana, a cura del tavolo tecnico istituito tra Comune di Parma, ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e ministero della Salute è stato introdotto formalmente questo ruolo. A livello giuridico, invece, tra il 2003 e il 2010 sono state adottate leggi che vietano le discriminazioni per sesso, etnia e disabilità».
Il numero di questi professionisti, da allora, è cresciuto di anno in anno. Anche se ancora non è stato effettuato un censimento ufficiale.«Ci sono esempi in aziende come Alstomgroup, Unicredit e Comune di Roma», prosegue. «Ma non siamo in grado, attualmente, di sapere quanti siano i disability manager attivi nel nostro Paese».

 

Obiettivo: valorizzare le diversità e trasformarla in ricchezza

 

Eppure il loro lavoro è sempre più fondamentale nel tessuto imprenditoriale italiano. «In una società sempre più multiculturale, e caratterizzata dall’emersione delle persone con disabilità grazie alla Convenzione Onu sui diritti delle persone, è necessario considerare la persona nella propria unicità e nella propria capacità di contribuzione al mondo organizzativo in cui vive», conferma l’esperta. Questa è la diversità, opposta alla massificazione e all’ appiattimento. Il disability manager oggi tutela le minoranze. In secondo luogo si occupa dell’elaborazione e attuazione di tecniche, strumenti e procedure per la valorizzazione del capitale umano mediante processi di inclusione». Tutto questo avviene soprattutto nelle realtà di maggiori dimensioni. Tra le piccole e medie imprese, invece, questo ruolo è ancora poco sviluppato. «Nelle Pmi le tematiche della diversity sono gestite con buon senso, comprensione e fiducia, basandosi sulla profonda conoscenza reciproca come spesso accade nelle imprese familiari», va avanti Battistelli. «Le piccole organizzazioni non dispongono di risorse finanziarie importanti e di personale da dedicare allo sviluppo di un processo interno di cambiamento e spesso non sono organizzate per processi. Ecco perché questo ruolo è destinato a rimanere prerogativa delle realtà di maggiori dimensioni». A meno che le imprese più piccole non si organizzino in modo diverso. «Potrebbero infatti condividere un disability manager contenendo in questo modo i costi fissi», aggiunge. «Ma bisognerebbe creare una rete di professionisti strutturati in forma associata. In tal modo la piccola azienda non avrebbe necessità di una figura interna, ma potrebbe beneficiare dei servizi in forma di consulenza e a tempo determinato, come qualsiasi altro servizio professionale».

 

Colmare il gap è possibile

 

In questo modo sarebbe possibile colmare il gap tra l’Italia e i Paesi più evoluti sul fronte della gestione delle diversità in azienda. «Nel nostro Paese in effetti si fa ancora molto poco», spiega ancora l’esperta. «La gestione della diversità è adottata solo dal 20,7% del mondo produttivo, mentre in Germania, tanto per fare un esempio a noi vicino, è al 39,4%. Non solo: nella gran parte dei casi in Italia il diversity management si trasforma in gender management, orientato cioè all’attenzione del genere femminile». Ma migliorare è possibile. «Serve innanzitutto un intervento normativo che codifichi la figura e al tempo stesso coordini tutti i provvedimenti legislativi di settore relativi al divieto e alla repressione di condotte discriminatorie», conclude. «In secondo luogo occorre promuovere nelle università ricerche ed esami curriculari in materia di diversity management e disabilità».

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