Il decalogo del welfare aziendale responsabile

Il decalogo del welfare aziendale responsabile

Dal 5 dicembre torna in libreria Il welfare in azienda – imprese smart e benessere dei lavoratori (Vita e Pensiero, 2019). Anticipiamo le 10 ‘regole’ per impostare una strategia di valorizzazione delle risorse umane e per promuovere iniziative di crescita del territorio. 

 

 

Il welfare aziendale che si è sviluppato dopo il ‘Big Bang’ degli ultimi anni non può più essere interpretato dentro la cornice classica della Responsabilità sociale d’impresa.

 

La Corporate Social Responsibility (CSR) ci pare infatti più prossima alla filantropia, alla logica volontaristica di ‘fare qualcosa di buono’ restituendo alla società (e/o al territorio) qualcosa che si ritiene essere moralmente dovuto come parziale risarcimento dei benefici che l’impresa ha estratto dalla società e/o dal territorio. Questa impostazione è in realtà una spia di un carattere tipico di aziende in cui profitto e beneficio sociale viaggiano su binari paralleli.

 

Ci sembra interessante domandarci allora che cosa faccia del welfare aziendale una pratica autenticamente responsabile, nel senso di: sostenibile in termini sociali, economici e culturali in funzione di uno sviluppo pienamente umano; trasparente rispetto ai fini e ai risultati; capace di tener conto delle esigenze di solidarietà tra i generi e tra le generazioni; consapevole della propria funzione rispetto a temi di rilevanza pubblica.

 

Preciso che il concetto di “responsabilità” è stato elaborato nell’ambito del progetto di ricerca “Welfare Responsabile”, coordinato da Vincenzo Cesareo (Università Cattolica) e realizzato grazie al coinvolgimento di 10 centri di ricerca universitari. Per approfondire si può far riferimento a: V. Cesareo, N. Pavesi (a cura di, 2019), Il Welfare responsabile. Una proposta per la società italiana, Vita e Pensiero, Milano.

 

In una fase di ampia diffusione di queste esperienze e di tumultuoso sviluppo di un mercato di servizi specificamente rivolti a questo tema, questa domanda assume una rilevanza tutt’altro che accademica.

 

Un welfare aziendale responsabile si qualifica infatti come strategia di valorizzazione delle risorse umane, dentro una logica in cui l’attenzione ai bisogni sociali dei lavoratori non è a valle del profitto, ma entra in dialogo con la possibilità di sviluppo dell’impresa: se i lavoratori trovano una risposta alle loro necessità di welfare, anche l’azienda potrà funzionare meglio.

 

Partendo da questa premessa, è possibile provare a stilare un primo, benché provvisorio, decalogo del “welfare aziendale responsabile”, sintesi di quanto proposto nel libro Il welfare in azienda – imprese ‘smart’ e benessere dei lavoratori (Vita e Pensiero, 2019) che dopo la prima edizione del 2016 è tornato in libreria a inizio dicembre 2019:

 

 

1. Cultura oltre la moda

Per fare welfare occorre una specifica cultura aziendale: al di là della moda del momento e della spinta determinata dai benefici fiscali, è plausibile immaginare che i piani di welfare più efficaci e duraturi saranno quelli nati da contesti aziendali capaci di formulare al proprio interno una solida e condivisa cultura specifica.

 

L’attenzione al bisogno del lavoratore non si può infatti improvvisare: è componente essenziale di una strategia di valorizzazione delle risorse umane capace di guardare alle persone e alle loro necessità fondamentali.

 

2. Logica di ascolto

 

L’approccio ‘personalista’ si sostanzia innanzitutto in una concreta logica di ascolto: osservare, leggere, capire i bisogni delle persone è una necessità inderogabile per far funzionare adeguatamente un piano di welfare in azienda. Come ebbe a scrivere il grande teologo protestante statunitense Reinhold Niebuhr: “Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone”.

 

Non è raro imbattersi in proposte di welfare da parte delle aziende che non sembrano corrispondere alle esigenze di chi ci lavora: da qui vengono gli inevitabili fallimenti rispetto al ritorno di valore che le aziende si attendono. Le conseguenze di un cattivo ascolto, in termini di clima aziendale e senso di appartenenza, ma anche (come abbiamo visto) di scarsa propensione a utilizzare strumenti come la welfarizzazione del Premio di risultato (Pdr), sono facilmente prevedibili.

 

3. Nuovo ruolo del sindacato

 

L’ascolto delle esigenze dei lavoratori chiama evidentemente in causa il sindacato: sono proprio i delegati sindacali aziendali a essere investiti dalla forza delle trasformazioni che il lavoro e le relazioni industriali stanno vivendo in questi anni.

 

Numerose analisi quantitative condotte in questi anni segnalano l’esistenza di una robusta correlazione statistica tra la forza del sindacato e la probabilità di avere piani di welfare attivi in azienda. Si tratta di un segnale importante, che ripropone il sindacato come soggetto potenzialmente attivo dentro i flussi di trasformazione.

 

La forza del sindacato si esprime sempre più evidentemente anche nella capacità di negoziare i temi del welfare insieme a quelli di più tradizionale copertura da parte delle relazioni industriali. Il rafforzamento della contrattazione di secondo livello e la crescente diffusione in questo ambito di elementi di welfare sono segnali molto rilevanti.

 

Permane, però, in una parte del sindacato una sempre più dichiarata resistenza nei confronti di queste soluzioni, figlia di rigidità ideologiche prima che di effettive evidenze rispetto al rischio di una almeno parziale sostituzione con il welfare pubblico.

 

4. Pdr come welfare ‘aggiuntivo’

 

Una specifica attenzione deve essere posta proprio al tema del Pdr: si tratta, come dice la parola stessa, di un emolumento aggiuntive, premiale. Dunque, per sua natura aleatorio e incerto. Tutto il contrario dei bisogni a cui il welfare dovrebbe rispondere: concreti, duraturi nel tempo, certi nella loro necessità di spesa.

Proprio per questo, la possibilità di convertire in welfare una parte o tutto il Pdr è sicuramente un’opportunità per le imprese (che ottengono significativi benefici fiscali, in virtù delle più recenti normative), ma non può che essere una componente di un impegno aziendale in tema di welfare più ampio e articolato.

 

5. Livellare le equità

 

Questo impegno a 360 gradi si configura nei termini di una concreta responsabilità se è capace anche di diminuire le normali diseguaglianze determinate dal livello di inquadramento.

 

Si è soliti pensare che un piano di welfare debba definire budget disponibili crescente al crescere della retribuzione: si tratta certamente di una scelta comprensibile dentro le dinamiche di riconoscimento interno all’azienda, ma alcuni casi aziendali propongo anche alcune integrazioni a questa logica, capaci per esempio di integrare il budget base spendibile in welfare con aggiunte che tengano conto della presenza di bambini o persone disabili o non autosufficienti.

 

6. Ridurre il welfare digital divide

 

Sempre più spesso i dipendenti delle imprese in cui è presente un piano di welfare accedono a un portale web entro il quale possono esercitare una scelta di spesa del proprio budget welfare. Si tratta di un’opportunità importante, che riconosce la libera scelta della persona per provare a personalizzare il più possibile l’esperienza di utilizzo dei benefit disponibili.

 

Alcune evidenze segnalano però l’esistenza di quote non marginali di lavoratori e lavoratrici per i quali la scelta non è soltanto un’opportunità, ma anche un problema in più da gestire: lavoratori anziani e/o a bassa qualifica e capitale umano, ma anche giovani privi di un’adeguata preparazione sul tema, necessitano probabilmente di una ‘guida relazionale’ che aiuti a una scelta efficace e responsabile. Occorre insomma passare dalla possibilità di scelta alla capacità di scelta.

 

7. Lo sviluppo di nuove reti

 

Se oggi il welfare sembra ancora essere un fenomeno frammentato e puntiforme, in cui ogni azienda è protagonista autonoma della trasformazione, la grande scommessa dei prossimi anni sarà quella dell’allargamento dei suoi confini secondo logiche di condivisione.

 

Lo sviluppo di reti territoriali di soggetti pubblici, della rappresentanza, profit e non profit è una via certamente complessa ma forse inevitabile per permettere soprattutto alle aziende di minori dimensioni di accedere a un modello altrimenti poco praticabile.

 

8. Razionalizzazione dei provider

 

In termini più generali, la diffusione di una logica responsabile del welfare aziendale dipenderà sempre più dal sentiero di sviluppo che prenderà il mercato dei provider.

 

L’avvio di una fase di razionalizzazione apre la strada a concentrazioni molto importanti, ma una specifica partita si giocherà per l’innalzamento complessivo dell’offerta e per la diffusione di una cultura del welfare più specifica.

 

9. Nuovo spazio per il Terzo Settore

 

In questo senso si apre un ruolo di rilievo per i soggetti di Terzo Settore, per molti aspetti attori ‘naturali’ anche di questo nuovo mercato. Questi soggetti potranno aumentare la loro presenza con soluzioni innovative, contribuendo (come nel caso del Consorzio CGM) anche alla definizione di standard di qualità.

 

Sono chiamati tuttavia a una non facile dinamica di ibridazione che ne metterà in gioco i modelli organizzativi e gestionali, senza dover per questo mettere a rischio la propria practice culturale.

 

10. Favorire i servizi del ‘vero’ welfare

 

Infine (ma certamente non si tratta di un tema marginale) il futuro responsabile di questo mondo così dinamico dipenderà probabilmente molto anche dalle eventuali modifiche normative che potranno essere introdotte nei prossimi anni.

 

È forse giunto il momento di ripensare il paniere di beni ammesso, formulando una cornice più limitata per i beni legati al tempo libero e rafforzando la possibilità di utilizzo di beni e servizi più esplicitamente relativi alle logiche del welfare.

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