Il welfare aziendale come leva per un nuovo sindacato

Il welfare aziendale come leva per un nuovo sindacato

Le politiche di benessere hanno posto nuovi obiettivi comuni ai principali attori coinvolti nei rapporti di lavoro. Ed è proprio qui che i rappresentanti dei lavoratori possono giocare un ruolo innovativo.

 

In tempo di crisi, la contrattazione collettiva e quella aziendale sembravano avere perso appeal: trovandosi le imprese a dover gestire in contemporanea competitività, business e rapporti di lavoro, gli aspetti legati alla contrattualistica erano passati in secondo piano.

 

Ciò che li ha riportati in auge è stato il welfare aziendale: non solo ha accompagnato la gestione della crisi, ma ha posto nuovi obiettivi condivisi da imprese, lavoratori e sindacati. Infatti, molte aziende si sono risollevate proprio quando hanno cominciato a investire sul benessere dei lavoratori, scommettendo su di esso come chiave di volta.

 

Gli alleggerimenti fiscali hanno dato un impulso ulteriore ed ecco che la logica unilaterale sottesa ai ‘vecchi’ modelli di welfare è stata sostituita da un’ottica di condivisione. I sindacati non si sono sottratti a questa sfida, tanto è vero che sono sempre di più i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali che prevedono misure di welfare.

 

Da quello dei chimici a quello dei metalmeccanici, a oggi modeste, ma significative quote di welfare sono state introdotte nella contrattazione collettiva, prevedendo un trend di crescita progressiva per la cifra designata.

 

Sergio Spiller, membro del Comitato Scientifico di Tuttowelfare.info e che da molti anni si occupa della contrattazione dei più grandi gruppi industriali del Paese per conto della Cisl, ricorda tempi in cui i primi tentativi di introdurre un welfare di tipo sanitario erano accolti con disinteresse o, addirittura, diffidenza da parte dei lavoratori.

 

Allo stesso tempo, ricorda il sindacalista, le aziende peccavano di disinformazione e, così, erogavano alle compagnie assicurative cifre significative, a fronte di numeri molto ridotti di beneficiari.

 

Negli anni, complice la crisi, ma anche la maggiore facilità nel diffondere informazioni, l’utilizzo di queste misure di sostegno, per lo più di tipo sanitario e/o previdenziale, ha preso sempre più piede, sino a diventare una delle richieste considerate imprescindibili nella contrattazione aziendale e, successivamente, in quella territoriale e collettiva.

 

Il sindacato stila la pagella del welfare

 

Il giudizio del sindacato, secondo Spiller, non può che essere positivo: “Si tratta di un servizio da sostenere e ampliare, anche in ottica di una crescente complementarità con il welfare di tipo universalistico erogato dal settore pubblico”.

 

Infatti, la Cisl insiste sul fatto che le misure di welfare aziendale, soprattutto quelle di tipo sanitario, non debbano essere concepite in sovrapposizione o, addirittura, in opposizione all’offerta del servizio pubblico, anzi: la strada da percorrere è quella che, all’aggettivo “aziendale”, aggiunge sempre anche “integrativo”.

 

Alla base di ciò, ci sono motivi legati non solo alla crescente precarietà delle forme di lavoro, ma anche alla condizione demografica italiana, che rendono gravosa la spesa privata per ricorrere a prestazioni di tipo socio-sanitario (dal dentista alla badante).

 

Ecco che, se l’universalismo del welfare pubblico non deve essere messo in discussione, tuttavia esso deve sempre più intersecarsi con le iniziative aziendali, generando ricadute positive non solo sui lavoratori dipendenti, ma anche sulle loro famiglie e su tutta la società.

 

Per Spiller questo è possibile, per esempio, prevedendo un’ultrattività dell’erogazione dei servizi anche per alcuni mesi dopo la cessazione del contratto di lavoro, magari scegliendo proprio quegli ambiti specifici in cui la complementarità è particolarmente efficace.

 

L’ultrafinanziamento di tali accordi può anche essere frutto di una collaborazione pubblico-privato a doppio senso: il welfare a cui dobbiamo puntare, osserva il sindacalista, deve essere inclusivo nei confronti di tutti i lavoratori, non solo per gli assunti a tempo indeterminato.

 

Nell’economia italiana l’occupazione non standard o a termine rappresenta quasi un terzo degli occupati. Dunque, occorre non creare ulteriori gap fra lavoratori: un welfare inclusivo e replicabile in contesti flessibili è una sfida importante per il futuro. Se perdendo un lavoro si perde anche una fetta importante di welfare, si moltiplica il disagio: questo spiega perché sulla ultrattività di esso occorre coinvolgere tutte le parti sociali e responsabilizzarle in tale direzione.

 

Secondo Spiller, infatti, il welfare non deve perdere di vista lo scopo mutualistico con cui nasce: l’obiettivo del sindacato non è moltiplicare le possibilità e le offerte per i beneficiari, o personalizzarle al massimo, per esempio tramite le piattaforme offerte dai diversi provider, ma puntare a includere nei pacchetti prestazioni di protezione sociale che coprano eventi imprevisti e negativi, come lunghe malattie non indennizzate, anche in ottica solidale.

 

Verso la complementarità pubblico-privato

 

È su questo tema del welfare non sanitario che si inserisce la parte più critica dell’opinione di Spiller: il parere diventa molto più articolato. “Complessivamente il giudizio è positivo, ma occorre distinguere fra tipologie di servizi offerti”, osserva il sindacalista.

 

“Tra gli elementi che determinano la valutazione ci sono la specificità delle singole prestazioni e l’esistenza di una visione e di obiettivi ben precisi, che permettano di governare i processi e monitorare le esigenze e le richieste dei lavoratori, per adeguare l’offerta a esse. Non solo: occorre investire sull’informazione e formazione capillare sull’utilizzo degli strumenti disponibili”.

 

Il rischio che vede Spiller è quello che, senza una verifica preventiva dei bisogni, “l’adozione del welfare diventi solo una forma di pubblicità per l’azienda, senza una ricaduta concreta sul benessere dei lavoratori”.

 

Il pensiero va a quelle aziende che, a titolo di esempio, “propongono voucher spendibili in esercizi commerciali che non sono nemmeno presenti nel territorio di riferimento, oppure che stanziano cifre importanti per una sanità integrativa cui i dipendenti non possono (o non hanno bisogno di) accedere, perché hanno tutti un’anzianità aziendale o un’età anagrafica bassissima, oppure, ancora, erogano servizi che incidono realmente sulla vita di una fetta molto parziale di dipendenti”.

 

Questo è il caso, secondo il rappresentante della Cisl, anche dei ‘famosi’ nidi aziendali, “un servizio di welfare sovrastimato nella sua efficacia, dal momento che rispondono a bisogni concreti di una piccola parte di lavoratori, per giunta per un periodo molto limitato della loro vita professionale, sebbene i costi di creazione e gestione siano molto alti. Meglio, dunque, puntare su convenzioni con quanto preesistente, in ottica collaborativa con le altre realtà, pubbliche e private, del territorio”.

 

A questo proposito, la presenza di misure di welfare già nei contratti collettivi nazionali assume un valore ulteriore, che è quello di “trovare elementi unificanti”, dice Spiller. Il sindacato, che interviene a questo livello, “ha una visione realistica della composizione della popolazione aziendale e delle sue esigenze; e perché inserire il welfare nei Ccnl, puntando su servizi quali la sanità e la previdenza, da cui i più possono trarre utilità, permette di superare alcune disparità, tenendo conto dei contesti e favorendo l’accesso al welfare da parte di quelle piccole e medie imprese per cui altre forme sarebbero eccessivamente gravose, o addirittura inaccessibili”.

 

Al sindacato, ora, spetta l’onere di dimostrare di sapersi rigenerare anche in contesti lavorativi nuovi e in evoluzione, strutturando soluzioni di welfare accessibili, generative, complementari, integrative ed efficaci per tutti.

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