Il welfare aziendale tra mito e realtà
Welfare. Wooden letters on the office desk, informative and communication background

Il welfare aziendale tra mito e realtà

Gli strumenti per generare benessere si sono evoluti e diffusi, ma incontrano ancora diverse difficoltà. In particolare di carattere culturale, fiscale e (anche) economico.

 

È un tema sempre più noto, ma il welfare aziendale incontra, ancora oggi, alcune difficoltà nella sua attuazione e diffusione. Se n’è parlato in particolare durante una tavola rotonda al convegno Tuttowelfare – Il welfare dalla A alla W, il primo evento promosso da Tuttowelfare.info. A confrontarsi sono stati l’HR di una storica azienda italiana, l’associazione di rappresentanza degli imprenditori e i sindacati.

 

La prima difficoltà emersa è di carattere culturale. “È stato complicato implementare il welfare in un’azienda conservatrice come la nostra”, ha esordito Alessandra Caraffini, Human Resouces di Ilma Plastica. L’azienda, che ha 80 anni di storia, è radicata nel territorio e ha 140 dipendenti: nel 2014 ha adottato un piano di welfare.

 

Far uscire le persone dalla propria zona di comfort, però, presenta delle difficoltà e anche qualche resistenza, sia da parte dei vertici sia dei lavoratori, come racconta l’HR. “Abbiamo lavorato molto sul cambiamento per aiutare le persone a cambiare e a capire che il cambiamento non è una cosa negativa”.

 

“Siamo in una fase di profondo cambiamento culturale che mette gli imprenditori davanti a un bivio: è riduttivo pensare al welfare come strumento puramente economico, a essere fondamentale è invece il benessere delle persone”.

 

Partendo dalla convinzione che se si lavora insieme per lo stesso obiettivo si raggiungono risultati migliori, le Risorse Umane di Ilma Plastica non hanno imposto il piano di welfare dall’alto, ma hanno lavorato per farlo accettare all’interno dell’azienda. “Abbiamo fatto capire ai dipendenti quanto sono loro e il loro benessere fossero importanti per l’impresa e ai vertici quanto è fondamentale per noi mettere le persone al centro per raggiungere gli obiettivi dell’azienda”, ha proseguito Caraffini.

 

Uno sforzo ripagato dai risultati: un turnover praticamente pari a zero. “Penso che i dipendenti siano contenti e si ritengano fortunati”, ha commentato l’HR. “Però facciamo ancora fatica a far capire loro il valore dello strumento, il fatto che si tratta comunque di soldi”.

 

Inoltre, una volta che il piano è stato accettato all’interno dell’azienda, le Risorse Umane hanno incontrato e tutt’ora incontrano molte difficoltà nell’apportarvi delle modifiche. “Non vogliamo forzare la mano perché un welfare imposto non diventerebbe un valore aggiunto: dobbiamo prima far capire alle persone lo strumento e poi possiamo implementarlo”.

 

Cambiare la mentalità dei vertici

 

Non è solo la diffidenza dei lavoratori che bisogna vincere per implementare con successo un piano di welfare aziendale, ma anche la forma mentis degli imprenditori. “Il welfare c’è sempre stato nelle imprese illuminate, ma con l’avvento delle agevolazioni fiscali è stato sdoganato come strumento di politica retributiva agevolata”, ha spiegato Stefano Passerini, Responsabile Area Sindacale di Assolombarda Confindustria Milano, Monza e Brianza, Lodi.

 

L’aspetto dei costi fa ancora presa su un certo tipo di impresa che quindi implementa il welfare non per garantire il benessere dei dipendenti, ma perché costa poco e permette di risparmiare”.

 

Il rappresentante delle associazioni delle imprese racconta che l’inserimento del welfare nei contratti nazionali abbia avuto un ruolo importante nel “far avvicinare al welfare quelle aziende che ancora non avevano un piano e che di loro iniziativa probabilmente non ne avrebbero mai implementato uno”.

 

È il caso delle piccole e piccolissime imprese, che costituiscono la maggioranza delle associate ad Assolombarda. “Il contratto è servito per rompere il muro di diffidenza e far iniziare le aziende a pensare e parlare di welfare, anche solo con una cifra simbolica”.

 

Ma non bisogna fermarsi qui, ammonisce Passerini, che insiste nella necessità di far capire agli imprenditori che “il welfare non è un surrogato della retribuzione, ma uno strumento complementare e aggiuntivo”. In questo senso, l’evoluzione del welfare deve passare per un percorso di acculturazione.

 

Far capire le potenzialità del welfare

 

“Non tutto è welfare. Dobbiamo distinguere il welfare dal paternalismo industriale di ottocentesca memoria, sennò rischia di essere solo un fuoco di paglia”, ha avvertito Sergio Spiller, Responsabile Dipartimento Contrattazione Cisl Nazionale.

 

In particolare, per il sindacalista “il welfare diventa uno strumento potente nel momento in cui riesce a cogliere la differenza delle esigenze delle persone e che le esigenze cambiano nel tempo”. Quindi, una proposta di welfare veramente avanzata non può essere generale e uguale per tutti, ma deve saper cogliere le specificità della popolazione aziendale.

 

Su questo fronte, i flexible benefit potrebbero offrire un’opportunità, ma, come ha rilevato Spiller, “finora sono state raccolte poche adesioni da parte dei lavoratori”. Il sindacalista individua i motivi di questo scarso successo nel fatto che i lavoratori fanno fatica a capire il welfare. “Bisogna dare strumenti che motivino tutte le parti in causa”.

 

La soluzione risiede in una corretta comunicazione che renda i dipendenti consapevoli, li coinvolga e soprattutto li faccia partecipare. “Per massimizzare i risultati, servono alcuni presupposti: non deve essere sentito come un regalo e ci vuole una corretta e approfondita informazione che illustri lo strumento, come va utilizzato e quali sono i vantaggi”.

 

Trovare una sinergia tra welfare pubblico e privato

 

“Con la riduzione del welfare state, la diffusione del welfare aziendale potrebbe comportare la divisione delle persone in cittadini di classe A, lavoratori che hanno il welfare aziendale, classe B, lavoratori che non ce l’hanno, e classe C, persone che sono fuori dal mondo del lavoro e non hanno un reddito”.

 

A dipingere questo scenario è stato Diego Paciello, dottore commercialista e esperto di welfare aziendale, che ha illustrato come sia necessario “trovare una sinergia tra pubblico e privato per evitare questa dicotomia”. L’esperto ha chiarito che “il welfare non comporta necessariamente un mancato gettito per l’erario, perché ci sono dinamiche che compensano”.

 

Anche la conversione del premio di risultato in welfare è legata al reddito. “Più è alta la retribuzione del lavoratore, maggiore è l’aderenza e la conversione del Premio di risultato in servizi di welfare, e viceversa”, ha dichiarato Paciello.

 

Inoltre il commercialista ha sottolineato che “la conversione del Pdr in welfare è un congelamento del reddito che i dipendenti potranno spendere un domani. Da qui nasce la diffidenza dei lavoratori”.

 

Secondo l’esperto, per aumentare i tassi di conversione è necessario dare una corretta informazione ai dipendenti su come funziona il meccanismo, altrimenti non potranno fare una scelta consapevole. Ma bisogna essere consapevoli che, anche a fronte di una corretta comunicazione, “alcuni dipendenti hanno bisogno di incassare subito il premio per pagare spese non comprese nel welfare aziendale che non possono procrastinare”. E quindi non potranno usufruire del welfare aziendale.

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