Il welfare visto dai lavoratori è (ancora) distante dai veri bisogni

Il welfare visto dai lavoratori è (ancora) distante dai veri bisogni

Nomisma ha realizzato uno studio sulla valutazione e l’utilizzo dei servizi di benessere da parte dei dipendenti. Secondo i dati, solo il 55% del personale in azienda utilizza le misure messe a disposizione dall’impresa.

 

Il welfare aziendale è nato come soluzione ai limiti del welfare pubblico e nella speranza che, migliorando la qualità di vita dei lavoratori, aumentasse anche la produttiva dell’azienda. Dopo l’esplosione del fenomeno, in seguito alla legge di Stabilità del 2016, si è sentita l’esigenza di misurare l’impatto dei servizi di welfare dal punto di vista dei beneficiari: i lavoratori.

 

Così Nomisma, in collaborazione con Cgil, ha svolto uno studio in questa direzione, misurando le valutazioni e l’utilizzo del welfare aziendale da parte dei lavoratori. “È la prima volta che si va a vedere cosa pensano i lavoratori, chiedendoglielo direttamente”, ha precisato Roberto Ghiselli, Segretario confederale della Cgil. La ricerca ha coinvolto un campione di 70 aziende e 1822 lavoratori, dei quali il 49% impiegati, il 45% operai e il 6% quadri.

 

“Lo studio ha messo in evidenza come il welfare aziendale, pur essendo un potente strumento per migliorare il benessere dei lavoratori, non stia ancora esprimendo appieno le proprie potenzialità”, ha spiegato Luigi Scarola, Responsabile Sviluppo territoriale e welfare Nomisma, durante la presentazione della ricerca.

 

“È emersa in maniera netta l’esistenza di un conflitto tra ciò di cui avrebbero bisogno i lavoratori e la capacità dello strumento di soddisfarli”. Infatti, anche se il 70% dei lavoratori intervistati valuta positivamente l’utilità delle iniziative di welfare, solo il 55% usufruisce dei servizi offerti dalla propria azienda.

 

 

Serve ancora lavorare sulla comunicazione

 

Un primo elemento che emerge riguarda la comunicazione da parte dell’azienda sul piano di welfare implementato. Il 45% degli intervistati, infatti, ha dichiarato di essere stato informato solo a grandi linee sul welfare aziendale e il 9% per nulla. Nello specifico, gli operai risultano meno informati rispetto ai quadri. Il 28% degli operai dice di conoscere poco o nulla rispetto al tema, contro il 20% degli impiegati e l’8% dei quadri.

 

Per quanto riguarda l’utilizzo, emerge che a usufruire maggiormente dei servizi di welfare siano le donne (61%), contro il 52% degli uomini, e le famiglie con figli (59%). Dall’indagine si evince che all’aumentare della mansione lavorativa e del titolo di studio, cresce anche la fruizione dei servizi di welfare: 66% dei quadri e 62% di chi possiede una laurea.

 

Per quanto riguarda i benefici apportati dall’introduzione del welfare aziendale, il 70% degli utilizzatori ritiene che abbia comportato benefici economici, il 43% benefici di benessere generale, per il 31% ha contribuito a migliorare il rapporto con l’azienda e per il 27% ha fatto aumentare il senso di appartenenza del dipendente all’azienda.

 

I servizi più diffusi sono i fringe benefit (28%), l’educazione e istruzione (25%), la previdenza assicurativa (21%) e l’assistenza sanitaria (20%). I più apprezzati dagli utilizzatori sono: l’educazione e istruzione, la mobilità casa-lavoro e i mutui e prestiti.

 

Il principale motivo per cui i lavoratori non usufruiscono dei servizi di welfare offerti dall’azienda, invece, è la mancata capacità di intercettare i bisogni dei lavoratori (39%), seguita della scelta di ricevere una somma in denaro, anche se soggetta a una tassazione più elevata, al posto del servizio di welfare (38%).

 

In generale, i lavoratori che hanno dato una valutazione positiva del welfare aziendale hanno indicato tra le motivazioni: la gratificazione del lavoratore, l’aiuto economico nel bilancio familiare, l’evitare di perdere una parte del Premio di risultato (Pdr) in tasse e il permettere di dedicarsi ad attività alle quali non ci si sarebbe altrimenti dedicati.

 

I lavoratori che, al contrario, hanno dato una valutazione negativa del welfare aziendale hanno segnalato i servizi limitati, la complessità delle piattaforme, la scarsità delle informazioni in azienda, le procedure articolate, la poca rispondenza dei servizi alle esigenze dei singoli e il fatto che vincola la libertà di scelta sull’utilizzo del denaro.

 

Cresce il tasso di conversione e aumentano i provider

 

La conversione del Pdr in welfare è una misura che sta incontrando grande favore nelle imprese. Tra maggio 2016 e maggio 2017, infatti, sono stati depositati al ministero del Lavoro circa 50mila accordi sui premi di produttività.

 

Oggi, il 60% delle imprese associate a Confindustria mette a disposizione dei propri dipendenti almeno un servizio di welfare e il 21% applica un contratto collettivo che prevede l’erogazione del premio di risultato. Secondo i risultati dello studio di Nomisma, il tasso di conversione del Pdr in welfare è del 46%, di cui la metà dei lavoratori converte dal 75% al 100% del premio.

 

“In Italia oggi ci sono circa un centinaio di provider: 40 circa sono provider puri, gli altri rivendono servizi. Da quando esiste la possibilità di convertire il Pdr in welfare, i provider sono cresciuti in modo esponenziale, con un margine del +740%”, ha sottolineato Scarola. Dal 2015 al 2018, il numero di imprese che utilizzano piattaforme di welfare è aumentato del 615%.

 

Secondo la recente ricerca Provider: il welfare aziendale come mercato, condotta da Luca Pesenti e Giovanni Scansani, pubblicata da Tuttowelfare.info, invece, i “provider puri” censiti in Italia sono 18, mentre i provider proprietari di piattaforma sono 37, di cui 18 puri e 19 ibridi.

 

Aprire il welfare aziendale alla collettività

 

Alla luce dei risultati dello studio, Scarola sottolinea la necessità di recuperare la finalità sociale dello strumento e di integrare il welfare aziendale con quello pubblico. “La vera sfida che abbiamo davanti è quella di aprire il welfare aziendale al territorio e alla collettività. Le imprese possono dare un contributo essenziale nel mettere a sistema questi strumenti”.

 

Secondo Roberto Ghiselli, Segretario confederale Cgil, la ricerca mette in luce il bisogno di riqualificare la contrattazione per trovare servizi che rispondano alle esigenze reali delle persone e non solo come strumento per ottenere sgravi fiscali. “Il welfare contrattuale va ripensato complessivamente con l’obiettivo di qualificare i servizi erogati, favorire l’integrazione con il sistema pubblico di welfare e di estendere la platea dei lavoratori che ne possono beneficiare”.

 

“La normativa ha creato diverse fratture osservabili nella collocazione del welfare aziendale tra piccole e grandi aziende, tra nord e sud e tra lavoratori del pubblico, del privato e quelli non raggiunti dal welfare”, ha osservato Cristina Tajani, Assessora alle Politiche del Lavoro e Attività produttive del Comune di Milano. Per ricucire queste fratture, l’assessora auspica che si possa concordare un’alleanza territoriale per sperimentare un sistema di offerta di servizi che integri il welfare pubblico e quello privato.

 

“Non ha senso che ci sia una cesura tra chi ha la possibilità di accedere a servizi di qualità e chi no. I bisogni sono gli stessi, così come le risposte di qualità. Si può mettere a sistema una risposta ai bisogni di tutti, in modo democratico e senza distinzioni”, ha ribadito Martina Tombari, Responsabile di CGM Welfare, una piattaforma che offre gli stessi servizi a tutti: utenti dei servizi pubblici, cittadini, dipendenti di aziende del territorio.

 

 

Per Massimo Bottelli, Direttore del Settore Lavoro, Welfare e Capitale umano di Assolombarda, la ricerca evidenzia tutti i limiti del welfare calato dall’alto. “Se non si costruisce un piano come si deve, non serve perché non viene né apprezzato né utilizzato. Bisogna prima fare un’analisi demografica in azienda, poi il welfare va gestito in modo serio, con personale dedicato”.

 

Giulio Santagata, Consigliere Delegato di Nomisma, invece, rivendica il ruolo del welfare aziendale come strumento di politica industriale, che per sua natura non è universalistico ma contrattuale. “Il sindacato deve usare il welfare come strumento per fare contrattazione e parlare di organizzazione del lavoro aziendale”.

 

Per il consigliere è arrivato il momento di passare da una fase che ha definito “pionieristica” (anche se, per la verità, il mercato del welfare ha già affrontato la sua ‘adolescenza’) a una di ricerca per trovare strumenti in grado di integrare pubblico e privato nel territorio. “Il welfare aziendale integrato in quello pubblico aiuta tutti, ma lo devono gestire gli assessori al Lavoro e all’Industria, non quelli alla Sanità”.

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alessia.albertin@tuttowelfare.it