La diversity non è solo di genere

La diversity non è solo di genere

Avviare un diversity management volto a  riconoscere e valorizzare ogni forma di diversità: dall’orientamento sessuale all’etnia, fino alla religione e alla disabilità, sta diventando un’urgenza anche per le aziende italiane. Che invece sono ferme alla diversità di genere.

 

Parlare di diversity in azienda non vuol dire parlare solo della popolazione femminile e di come conciliare al meglio i loro impregni lavorativi con quelli familiari inaugurando asili aziendali piuttosto che introducendo lo smart working. Ma comprende tutto l’insieme delle pratiche finalizzate a riconoscere e valorizzare ogni forma di diversità, dal genere all’età, dall’orientamento sessuale all’etnia, fino alla religione e alla disabilità. E non per moda, ma per strategia. L’obiettivo ultimo infatti è quello di creare un ambiente inclusivo che migliori il clima e il benessere e, di conseguenza, la produttività delle persone e dell’organizzazione stessa.
A confermarlo è stata anche una ricerca condotta dalla società di consulenza Mckinsey, in base alla quale una buona gestione della diversità produce una performance aziendale superiore del 57% perché migliora le relazioni umane attraverso team plurali ed inclusivi. «Le imprese più “fighe” dei prossimi anni saranno quelle che avranno al centro del proprio obiettivo il tema della diversità , dalla quale raccogliere idee nuove. Dal cogliere la diversità  e interpretarla nasce il cambiamento, che è al centro del successo», ha osservato  l’imprenditore Oscar Farinetti, fondatore della catena Eataly.

 

Italia arretrata sul fronte della diversity

 

Concetto che le imprese di paesi dove la multiculturalità è più sviluppata rispetto all’Italia, come gli Usa o il Regno Unito, hanno percepito da tempo avviando politiche di gestione della diversity a 360°.  Ma in Italia sotto questo aspetto siamo ancora all’età della pietra. Basti dire che, in base a una ricerca fatta due anni fa dal Diversity Management Lab di Sda Bocconi su un campione di 150 aziende con oltre 250 dipendenti, solo il 21% di esse, ha adottato politiche di diversity management (la maggior parte rivolte alla popolazione femminile), mentre il 29% ha dichiarato di non essere nemmeno interessato a introdurle. Meglio tra le imprese con più di mille dipendenti dove la fetta di quelle “virtuose” dal punto di viste della diversità si è attestata attorno al 46%. Da allora qualche passo in avanti è stato fatto, ma abbiamo ancora molta strada da percorrere per superare i nostri limiti culturali sul fronte della diversità. Lo dice anche una nuova indagine della società di consulenza The Boston Consulting Gruop, che ha coinvolto oltre 4.000 partecipanti (<35 anni), di 60 nazionalità in 12 paesi (tra cui Italia), evidenziando che l’80% dei lavoratori è pronto a rivelare il proprio orientamento sessuale al lavoro, se l’opportunità si presentasse. Ma solo la metà dei dipendenti Lgbt+ lo ha già fatto. Un dato influenzato dal fatto che più di un terzo dei professionisti Lgbt+ (35%) crede che fare coming out sul lavoro potrebbe mettere a rischio la carriera. L’ambizione professionale prende, dunque, la priorità rispetto alla condivisione dell’orientamento sessuale. Soprattutto in Italia, dove l’ambiente di lavoro ha un livello di maturità, riguardo all’inclusione Lgbt+, più basso rispetto agli altri paesi intervistati. Tanto che il 33% del target Lgbt+ che ha partecipato alla ricerca non si sente a proprio agio al lavoro e non si sente pronto a fare coming out. Ben lontano dalle percentuali dell’Olanda (7%), dell’Inghilterra (11%), ma anche di quella cumulativa di Germania, Svizzera e Austria (16%) e della Francia (24%). Solo la Spagna registra una percentuale più alta, del 38%.

 

Solo il 39% delle aziende italiane attente alle differenze etnico-culturali

 

E poche sono anche le imprese in Italia (39%) attente alle differenze etnico-culturali e religiose, contro un dato a livello internazionale che arriva all’88%. Un trend dovuto in parte al fatto che molte nostre imprese non sentono ancora il problema in modo pressante visto che la maggior parte dei migranti presenti nelle nostre organizzazioni finora ha occupato posizioni basse dell’organigramma aziendale. Ma le cose sono destinate a cambiare nel giro di poco tempo. Dalle nostre università sta infatti per uscire un numero considerevole di giovani appartenenti alle seconde e terze generazioni di migranti e le aziende si devono muovere per tempo per gestire al meglio il loro arrivo sul mercato del lavoro con politiche mirate di gestione della diversity.

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