Lavoro? In Italia aumenta quello povero

Lavoro? In Italia aumenta quello povero

Avere un lavoro regolare, ma vivere sotto la soglia di povertà. Un fenomeno che nel nostro Paese riguarda milioni di cittadini e famiglie. I dati del rapporto realizzato da Cnel, Anpl e Inapp  per rinfrescare la memoria pochi giorni dopo il via libera del Consiglio dei ministri  al Reddito di cittadinanza. 

 

Dopo il via libera da parte del Consiglio dei ministri al Reddito di cittadinanza e Quota 100, ci sembra opportuno accendere i riflettori su un fenomeno che caratterizza il nostro Paese, dove non solo disoccupazione è sinonimo di povertà. Per ben 3 milioni di lavoratori italiani, infatti, lo è anche il suo contrario: l’occupazione. Cittadini italiani che regolarmente percepiscono una retribuzione, costretti però a vivere sotto la soglia di povertà. Condizione di ristrettezza e indigenza che si ripercuote su 2,2 milioni di famiglie nonostante almeno un componente sia occupato.

Ciò significa che in Italia, nonostante sia stato registrato un recupero del tasso occupazionale ai livelli pre-crisi, aumenta il lavoro precario e frammentato.

Questo quanto emerge dal Rapporto dal Cnel in collaborazione con Anpal e Inapp, che nell’ultima edizione tocca i principali aspetti della regolazione del lavoro e delle relazioni contrattuali: l’evoluzione dei lavori e delle condizioni dei lavoratori, le politiche attive e le politiche passive, la contrattazione collettiva e i suoi contenuti.

 

Cresce l’occupazione, ma il lavoro è povero

 

I due capitoli, il primo L’esplosione dei contratti a termine di M. Barbini e F. De Novellis e il secondo Il lavoro povero in Italia tra bassi salari e precarietà di C. Lucifora e V. Ferraris, documentano la diffusione del lavoro povero negli ultimi anni.

Il tasso dei disoccupati in Italia resta elevato, in media al 10,6% e tra i giovani al 30,4%. Un dato positivo, ma che se analizzato più in profondità si basa sulla diffusione del part-time e dei contratti a tempo determinato (+35% negli ultimi 4 anni). Si tratta di circa 800 mila lavoratori occupati che nell’85% dei casi hanno contratti di durata inferiore ai 12 mesi. I segnali di crescita occupazionale non si sono, dunque, trasformati in un aumento del volume del lavoro in Italia.

La crescente diffusione della povertà fra chi è occupato e fra le famiglie è da ricondursi a diversi fattori, e non solo alla crisi economica: bassa competitività del sistema, calo delle ore lavorate, precarietà dell’occupazione, impiego di manodopera poco qualificata e scelte di alcune aziende per il contenimento dei costi. Prospera, quindi, il part-time involontario, mentre il lavoro a tempo pieno registra un calo dell’8% e, ad aggravare il quadro già critico, aumenta il divario tra le fasce più qualificate e quelle meno qualificate con una polarizzazione asimmetrica per cui la fascia di lavoratori più qualificati cresce meno di quella poco qualificata. Ed è su questi punti, soprattutto, che i protagonisti della nostra politica nazionale dovrebbero concentrarsi per creare un mercato del lavoro solido, dinamico, con prospettive di crescita nel lungo periodo.

 

L’innovazione nella contrattazione decentrata: premi di risultato e welfare aziendale

 

E non è un caso che tra le misure evidenziate nel rapporto Cnel al fine di contrastare il fenomeno del lavoro povero e migliorare il mercato occupazionale in Italia (aiuto alla scuola e alla formazione, salario minimo legale, potenziamento dei centri per l’impiego…), ci sia il welfare aziendale. È in particolare nella contrattazione aziendale che sia nuove forme di premi sia misure di welfare possono, infatti, trovare lo sviluppo che meglio risponde ai bisogni dei lavoratori e che garantisce alti livelli di competitività delle imprese. Per questo l’invito che gli autori rivolgono, affrontando, la più ampia problematica della stagnazione salariale, è che le parti sociali svolgano, tramite la contrattazione nazionale decentrata, un ruolo importante e attivo nel promuovere e sostenere le retribuzioni dei lavoratori italiani con la diffusione dei premi di produttività e di forme di welfare aziendale.

I dati che presentano confermano la vitalità e il carattere innovativo di questo livello contrattuale, supportato anche degli incentivi fiscali e contributivi introdotti nelle ultime due leggi finanziarie. Come riportato nel rapporto, nel periodo fra maggio 2016 e giugno 2018 sono circa 15.639 le imprese che hanno fatto domanda per avere la detassazione del premio di risultato; l’88% in base a un accordo aziendale per un totale di 33.869 istanze e per 5 milioni circa di beneficiari. Inoltre, il valore complessivo del premio detassato annuo supera i 3 miliardi, corrispondenti a 1.291 euro per ogni beneficiario. Gli accordi sul welfare a dicembre 2017 sono 5.236 per un totale di 2.491.374 lavoratori coinvolti e un valore annuo medio pro capite di circa 1435 euro. Le misure di welfare si sono molto diversificate: vanno dalla previdenza e assistenza complementare fino alle varie forme di sostegno al reddito e alle misure di educazione dei figli, fino alla conciliazione vita-lavoro.

Nonostante il trend positivo che emerge dai dati, un limite di queste misure riguarda la loro la distribuzione che risulta diseguale con una netta maggioranza delle istanze provenienti dal Nord e da realtà medio-grandi. Particolare attenzione andrà, quindi, posta al mondo delle aziende più piccole, tra le quali il welfare non è cresciuto molto. E non solo, essendo uno strumento non più di nicchia, è condizione necessaria al fine di una diffusione equilibrata un’analisi dei benefit da incentivare fiscalmente, dal momento che non tutti quelli esistenti hanno uguale rilevanza pubblica. Ciò richiede un’eventuale revisione degli obiettivi e delle dimensioni delle agevolazioni fiscali e, quindi, una selezione delle priorità nelle scelte del welfare.

 

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