Per creare occupazione bisogna ridurre l’orario di lavoro

Per creare occupazione bisogna ridurre l’orario di lavoro

A parlare è Domenico de Masi, uno dei massimi esperti italiani di sociologia del lavoro. Che dice la sua anche su Reddito di cittadinanza, welfare e immigrazione.

 

«Quella del reddito di cittadinanza è un’ operazione della maggioranza di Governo fatta a livello mediatico, il reddito di cittadinanaza riguarda solo il problema della povertà». A parlare è Domenico De Masi, uno dei massimi esperti italiani di sociologia del lavoro. «Che in Italia comunque non è secondario. Basti dire che nel nostro Paese i poveri sono 5 milioni. Alcuni  di questi lavorano, ma guadagnano talmente poco da non riuscire comunque a cambiare il loro stato sociale. Altri invece sono troppo anziani per mettersi a lavorare, così come i bambini. Poi ci sono anche  quelli disoccupati. Insomma la galassia dei poveri nazionali è molto variegata. L’obiettivo del Reddito di cittadinanza è sconfiggere la povertà, non creare occupazione, quella è un’altra cosa per cui occorrono altri strumenti».

A questo proposito, per creare più opportunità di lavoro per i giovani e rendere più flessibile e libera la scelta di un’uscita dai circuiti lavorativi, il Governo ha introdotto Quota 100. La ritiene una misura utile?
Indubbiamente abbiamo abbiamo un problema reale: l’allungamento della vita media. Viviamo il doppio dei nostri trisavoli. Quando fu introdotta la prima legislazione sul pensionamento fu deciso che andassero in pensione i maschi a 60 anni e le donne a 55. Ma a quell’epoca la vita media viaggiava intorno ai 48 anni. Per questo motivo i conti dell’Inps tornavano. Ora, però, la prospettiva di vita si è allungata raggiungendo i 79 anni per gli uomini e gli 85 per le donne. Da qui la necessità di innalzare l’età del pensionamento. Ma bisogna tenere in considerazione anche il fatto che  non tutti i lavori sono uguali:  il lavoro in miniera è più duro del lavoro in catena di montaggio; il lavoro in catena di montaggio è più faticoso di quello di un giornalista; il lavoro di un giornalista è più pesante di quello di un operatore di call center. L’ideale sarebbe, quindi, stabilire una età minima al di sotto della quale non si possa andare in pensione e poi, a seconda del tipo di professione, lasciare la libertà di decisione al lavoratore e al datore di lavoro.
Conosce paesi esteri dove già funziona così?
Gli Stati Uniti, dove i docenti universitari, per esempio, al di sotto dei 65 anni non possono andare in pensione, ma dopo i 65 anni possono contrattare con il datore di lavoro se lasciare il mondo del lavoro a 70, 75 o 80 anni e se sono “ premi Nobel” possono tenerli in attività a vita.
Lei è un forte sostenitore della riduzione dell’orario di lavoro per redistribuire l’occupazione. Può spiegare i motivi di questa sua teoria?
Nel 1881 gli Italiani erano 30 milioni. Allora si lavorava per 10 ore al giorno per 6 giorni la settimana ciò significa 70 miliardi di ore in un anno. Dopo 100 anni con l’arrivo della tecnologia, l’orario di lavoro si è abbassato e gli italiani, ormai raggiunta una popolazione di 50 milioni di abitanti, 20 milioni in più , invece di lavorare 70 miliardi di ore lavorano 60 miliardi di ore con un aumento della produzione di circa 13 volte. Oggi, nel 2019 gli Italiani sono 61 milioni, lavorano 40 miliardi di ore e producono in meno tempo molto più di prima grazie alle tecnologie di nuova generazione. Fra 10 anni basteranno non più di 30 miliardi di ore per immettere sul mercato ancora più beni e servizi.
Dunque?
Dunque, se non si riduce progressivamente l’orario di lavoro, man mano che si introducono nuove tecnologie, alcune persone lavoreranno 10 ore al giorno e altre saranno disoccupate. In Germania questo lo hanno capito per tempo.
E cosa hanno fatto?
Man mano che venivano introdotte nuove tecnologie, l’orario di lavoro è stato ridotto. Per esempio a partire dal primo gennaio di quest’anno i metallurgici tedeschi hanno un orario di lavoro di 28 ore settimanali e hanno avuto un aumento di stipendio del 4,2%. Scelte che hanno portato la Germania anche ad avere una percentuale di occupazione dell’ 87% , contro il 58% di quella italiana. Quindi quando  propongo la riduzione dell’orario di lavoro non propongo nient’altro che prendere esempio dalla Germania, nazione molto vicina a noi e molto simile a noi sul piano produttivo.
Ma anche in Germania longevità, flussi migratori e disoccupazione, mettono in crisi i sistemi di welfare, come nel resto dei Paesi europei. Come garantire la sostenibilità economica di questi sistemi di welfare insieme al rispetto della dignità della persona umana?
La crisi economica dell’Europa non ha nulla a che fare con gli immigrati, anzi gli immigrati hanno aiutato a uscire dalla crisi economica molti Paesi, perché gli immigrati hanno coperto i vuoti di lavoro. In Italia abbiamo 79 anni di vita media per i maschi e 85 per le donne , questo vuol dire che siamo un Paese di anziani, i giovani da noi sono solo il 15%, in Africa raggiungono il 30%, il doppio. I flussi migratori fino a ora non hanno fatto altro che rendere più equilibrati i blocchi di età in Italia e in Europa, niente di più di questo e hanno consentito a questi Paesi di produrre più ricchezza. Quindi non c’è nessun rapporto tra immigrazione e maggiore spesa per il welfare,  la crisi economica è stata scatenata dai crack finanziari delle banche soprattutto americane, sono i ricchi che hanno ingannato i ricchi e non i poveri.  In Europa ci sono 4 tipi di Welfare, quello dei Paesi nordici, scandinavi, totalmente gestito dallo Stato e riguarda tutto:  include pensioni, i sussidi per gli incidenti sul lavoro, quelli per la scolarizzazione. Poi c’è un secondo tipo di welfare quello inglese –tedesco che affida una parte della programmazione ai sindacati e poi un terzo tipo con una gestione parziale che contempla solo alcune cose (ad esempio malattie senza infortuni).
Infine  c’è un quarto tipo di welfare che è quello mediterraneo:  Italia, Portogallo, Spagna, Grecia. Questo modello è quello un po’ meno efficiente, poiché i sistemi di erogazione spesso non funzionano.
Dunque quali sono i modelli di welfare in Europa che stanno tenendo meglio?
Quello scandinavo e soprattutto quello tedesco, come si vede dal mantenimento dei tassi di occupazione, perché se ci sono molti disoccupati il welfare viene a costare molto di più. Bisogna comunque sempre ricordare che il welfare non è nato per sostenere i poveri, ma per i ricchi, perché aumentando il numero dei poveri aumentava il pericolo di sommosse e rivoluzioni così Bismarck alla fine dell’Ottocento per evitare sbocchi incresciosi che avevano già creato subbuglio, come nel ’48, s’inventò il welfare.
Cosa ne pensa del welfare aziendale e che ruolo può svolgere nel contesto italiano?
Welfare aziendale è il welfare nazionale che si sposta in azienda. Con un unico problema: quando è nazionale riguarda tutti i cittadini, mentre quando è aziendale riguarda solo i dipendenti di una determinata impresa, per cui può accadere che in una stessa città può esserci un’azienda che ha un buon piano welfare e a fianco un’impresa che invece non ce l’ha. Tutto questo contribuisce ad aumentare le disparità sociali. Per questo va esteso e favorito a tutte le categorie di aziende

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