Professione caregiver

Professione caregiver

Sono quei lavoratori che si occupano di altre persone per necessità. Una legge li riconosce, ma la strada per svelare il loro valore aggiunto in azienda è ancora tanta.

 

L’Italia è un Paese che invecchia. Ecco perché il welfare aziendale non è più solo sinonimo di asilo d’impresa. Ci sono nuove fragilità che si legano al tema dell’assistenza agli anziani: le lavoratrici fra i 40 e i 55 anni, in particolare, appartengono alla generazione definita ‘sandwich’. Strette fra due poli anagrafici, si ritrovano a fare da ‘ammortizzatore sociale’ a genitori anziani, figli precari e nipoti senza asilo nido.

 

È un problema quasi tutto al femminile: uno studio Ocse del 2017 ha confermato che ogni donna, in Italia, dedica 36 ore la settimana ai lavori domestici, mentre gli uomini non vanno oltre le 14. Sono 22 ore di differenza e si tratta del divario maggiore tra tutti i Paesi industrializzati. Il carico aumenta notevolmente se in famiglia sono presenti membri fragili o bisognosi di cura.

 

Quanti siano effettivamente i caregiver in Italia, però, non è facile capirlo. Le statistiche si basano essenzialmente sulle pratiche di welfare che vengono attivate dagli enti previdenziali, dal momento che le aziende faticano a stare al passo con queste trasformazioni sociali.

 

L’Istat ha pubblicato una ricerca nel 2017, basata sui dati 2015, stimando una presenza di 7 milioni di persone, 2 milioni delle quali dedicano a questo compito più di 20 ore a settimana. Un esercito silenzioso fatto di figli, mogli, mariti, genitori che si prendono cura di un’altra persona in maniera del tutto volontaria. Addirittura 170mila caregiver sono giovani o adolescenti.

 

L’Emilia-Romagna è stata la prima Regione in Italia, nel 2014, a dotarsi di una legge regionale (2/2014) per il riconoscimento e il sostegno del caregiver familiare. In essa, questa figura è definita come “la persona che volontariamente, in modo gratuito e responsabile, si prende cura nell’ambito del piano assistenziale individualizzato di una persona cara consenziente, in condizioni di non autosufficienza o comunque di necessità di ausilio di lunga durata, non in grado di prendersi cura di sé”.

 

Questa definizione, tutto sommato ampia ed esaustiva, si scontra comunque con alcune leggi dello Stato, che non tengono conto delle trasformazioni sociali in corso e penalizzano alcune categorie di caregiver.

 

Per esempio, i benefici della Legge 104 – per intenderci, quella che consente di assentarsi dal lavoro per determinati orari o periodi per assistere un invalido – sono estendibili solo al terzo grado di parentela. Amici o parenti dal quarto grado, anche se sono gli unici che possono prendersi cura di un anziano o di un disabile, non possono godere di questi permessi.

 

Senz’altro il Legislatore ha inteso porsi al riparo da possibili abusi, ma, nei fatti, questo penalizza tutti quei caregiver informali che mettono il loro tempo a disposizione degli altri. Ogni caregiver si stima lo sia per almeno 10 anni, nel caso di assistenza a un anziano, o per tutta la vita se ha figli o fratelli con disabilità.

 

Questo mina la loro stessa salute: presto o tardi si trasformano anch’essi, prima del tempo, in ‘pazienti’ o, comunque, in persone fragili e bisognose di servizi di welfare. Secondo i risultati di uno studio di Elizabeth Blackburn, premio Nobel per la Medicina nel 2009, l’aspettativa di vita di un caregiver si riduce dai nove ai 17 anni, a seconda del carico di cura.

 

Valorizzare i caregiver delle organizzazioni

 

L’attività di caregiving può avere un impatto negativo non solo sul benessere psico-fisico del caregiver, ma anche sul nucleo familiare nel suo insieme e sulla persona accudita. Come dicevamo, gli stravolgimenti recenti del nostro tessuto sociale rendono più arduo ricoprire questo ruolo: le famiglie sono sempre più spesso composte di una sola persona (a Bologna sono più del 50%, dato record ed emblematico), le reti relazionali hanno maglie più ampie.

 

La Regione Emilia-Romagna, in attuazione della norma, fra le altre azioni promuove intese e accordi con le associazioni datoriali, tesi ad una maggior flessibilità oraria che permetta di conciliare la vita lavorativa con le esigenze di cura.

 

Questo, cercando di coinvolgere, oltre alle aziende, le parti sociali, il Terzo settore ed i soggetti sociali della comunità, i caregiver stessi, nell’attesa che si giunga in qualche modo a una formalizzazione dello status e ad un riconoscimento delle competenze maturate.

 

Quest’ultimo aspetto è importante per i caregiver che, esaurito il proprio compito, vogliano reinserirsi nel mercato del lavoro, essendo stati costretti a lasciarlo. Joseph B. Fuller e Manjari Raman scrivono nel report The caring company, edito per la Harvard Business School, che i tre quarti dei dipendenti delle aziende forniscono assistenza a un bambino, un familiare o un amico.

 

Spesso, però, i dipendenti faticano ad ammettere di essere caregiver, perché hanno paura che questo status condizioni la loro carriera o, addirittura, possa far loro non trovare o perdere il lavoro. Secondo i due ricercatori, solo il 28% dei caregiver è disposto ad ammettere che tale condizione abbia danneggiato la propria carriera. Questi pochi dichiarano di essere stati demotivati sul lavoro per la mancanza di prospettiva di crescita, di essere stati penalizzati in quanto alle mansioni o al salario.

 

Le aziende non hanno ancora una ‘cultura della cura’ e, quasi sempre, sottovalutano tale aspetto della vita dei propri dipendenti. Invece, i caregiver sono risorse invisibili e inattese: per esempio, manifestano particolari doti di empatia che li rendono adatti a mantenere i rapporti con i clienti (dal family care al customer care).

 

Ancora, sono multitasking, in grado di svolgere più compiti insieme; sono creativi, abili nel problem solving, hanno una spiccata intelligenza emotiva e una forte leadership generativa: tutte soft skill che le aziende devono imparare a valorizzare, con reciproco beneficio.

 

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