Lo smart working non decolla 

Lo smart working non decolla 

I primi numeri relativi all’applicazione della legge 81 del 2017 sul lavoro agile dicono che solo 114 aziende hanno chiesto e ottenuto gli sgravi contributivi pari al 5% della retribuzione prevista per i programmi di lavoro agile. Cosa non ha funzionato.

 

Smart working, negli ultimi anni se ne è fatto un gran parlare in Italia tanto che il lavoro agile ha conquistato anche un posto nei piani di welfare aziendale. Ma solo 114 aziende hanno chiesto e ottenuto gli sgravi contributivi pari al 5% della retribuzione prevista per i programmi di lavoro agile. E quasi certamente il budget 2017 di 55 milioni non sarà raggiunto, quindi chi ha fatto domanda otterrà il beneficio. È quanto emerge dai dati relativi all’applicazione della legge 81 del 2017 sul lavoro agile. Più nel dettaglio, le richieste di sgravio presentate dalle aziende nel 2017 sono state 314 e 313 quelle accolte. Di queste, 231 interessano le misure dell’area d’intervento della flessibilità organizzativa e all’interno di questa categoria la misura del lavoro agile risulta inserita nel contratto da 114 aziende, la flessibilità oraria da 147 aziende, il part-time da 100 aziende, la banca delle ore da 66 aziende e la cessione solidale da 29 aziende (ciascuna azienda doveva indicare almeno due misure che erano quelle previste dal decreto legislativo del 2015). Ciascuna azienda doveva indicare almeno due misure. C’è da sottolineare, inoltre, che delle 231 domande la maggior parte era interessata alla flessibilità in entrata e uscita più che al lavoro in remoto. Numeri che indicano uno sboom della legge sullo smart working.

 

Cultura e tempi stretti hanno fatto da zavorra

 

Il motivo va cercato in un approccio piuttosto cauto da parte delle imprese e dei lavoratori alla possibilità di lavorare da remoto, più che altro per una questione culturale. Numerosi, infatti, sono ancora i dipendenti che vivono l’allontanamento dalla scrivania come il pericolo di perdere il posto di lavoro o la posizione raggiunta. Non mancano poi le imprese, specie medio piccole, che temono di perdere il controllo sul lavoratore a distanza e continuano a preferire modelli organizzativi tradizionali, verticali, con un capo al centro, in una logica gerarchica piuttosto che verticale. Un’altra ragione dell’insuccesso è legata poi ai tempi molto stretti per chiedere gli sgravi contributivi.
Come ha riportato l’Agenzia di stampa Agi, infatti «Le domande per ottenere gli sgravi contributivi dovevano essere presentate entro 15 novembre ’17 e dovevano essere riferite ai contratti collettivi depositati da gennaio a ottobre dello stesso anno. Ma la normativa sul lavoro agile è entrata in vigore il 14 giugno, ed il decreto che disciplinava le modalità per la richiesta degli incentivi è arrivato solo a settembre del 2017. Inoltre la richiesta presupponeva un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, cosa che non sempre è possibile realizzare in tempi rapidi (anche se bisogna ammettere che le informazioni sulle agevolazioni contributive per il lavoro agile erano circolate ben prima che le relative norme entrassero in vigore)».

 

 

Il 36% delle aziende ha avviato progetti di smart working

 

 

Eppure le aziende che hanno dato il via a progetti di lavoro da remoto, stando ai dati L‘Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano, sono passate dal 30% del 2016 al 36% del 2017. Anche se tra le Pmi l’approccio è sempre soft: il 22% ha in corso progetti di smart working, ma solo il 7% con iniziative strutturate e il 53%  ritiene il lavoro agile poco applicabile alla propria struttura produttiva.

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