Un nuovo welfare per una società precaria

Un nuovo welfare per una società precaria

La spesa statale che garantisce benessere alle persone è orientata principalmente sui bisogni della terza età. Ancora limitate sono le risorse per i più giovani, che soffrono l’inadeguatezza degli aiuti. Ecco perché è ora di ripensare la strategia di soluzioni.

 

L’Italia è i tra i primi 10 Stati europei per spesa sociale rapportata al Prodotto interno lordo. Il nostro Paese spende molto per garantire servizi di welfare ai propri cittadini, ma la destinazione delle risorse risulta ancora fortemente sbilanciata a favore di pensioni, indennità per malattia o disabilità e misure assistenziali.

 

È quindi un welfare pubblico tutto schiacciato principalmente sulla terza età, di cui fanno le spese i più giovani. Sono i cosiddetti precari: ragazzi sotto i 35 anni con lavori discontinui e intermittenti, che soffrono l’inadeguatezza di prestazioni di welfare e ammortizzatori sociali, senza una famiglia o un partner a cui appoggiarsi.

 

Maurizio Ferrera, Professore Ordinario di Scienza Politica all’Università degli Studi di Milano, li definisce La società del Quinto Stato e a loro ha dedicato il suo ultimo saggio. “Coloro che si trovano in queste condizioni sono circa il 15% degli occupati italiani, quasi 3 milioni di persone. A differenza di quanto accadeva nelle fabbriche, i precari non si ritrovano tutti i giorni nello stesso posto di lavoro e perciò è difficile che si generi una coscienza collettiva e una comunanza di interessi”, ha spiegato il docente, intervenendo all’incontro Un nuovo welfare per un nuovo mondo, organizzato a Roma nell’ambito del Festival Economia come – L’impresa di crescere.

 

Se in passato la prossimità fisica agevolava lo scambio di esperienze, oggi i social network si dimostrano mezzi di comunicazione ‘freddi’, che non stimolano l’organizzazione di idee e movimenti se non per rapide fiammate. “Contano moltissimo le contingenze: i percorsi di vita di questi giovani possono deragliare verso la povertà e la solitudine o approdare a una stabilità economica, anche minima, quando si viene a creare un nucleo familiare con il partner”.

 

I lavoratori sono sempre più poveri

 

Il modello novecentesco di welfare europeo era pensato per un percorso di vita articolato in fasi ben distinte: istruzione, lavoro stabile, pensionamento. Oggi questa tripartizione è messa in crisi da un contesto sempre più incerto, in cui i tempi per la formazione, l’impiego e la cura della famiglia si succedono e si sovrappongono in maniera fluida.

 

“A partire dagli Anni 90 si è registrato in tutti i Paesi un lento incremento della povertà tra la popolazione in età lavorativa. Eppure, negli ultimi 40 anni è cresciuta l’occupazione, è salito il livello del reddito e si è avuto un incremento stabile della spesa sociale”, fa notare Bea Cantillon, Professoressa di Politica Sociale e Direttrice dell’Herman Deleeck Centre for Social Policy all’Università di Anversa.

 

I dati presentati dalla docente smontano tutti i più noti mantra dei politici, secondo cui per contrastare la povertà occorrerebbero più posti di lavoro, più ricchezza e più spesa per il welfare. “La crescita a livello occupazionale non è stata omogenea: i posti di lavoro sono aumentati per coloro che potevano contare su alte competenze, mentre le persone scarsamente qualificate sono rimaste escluse dal mondo del lavoro. Ci sono state pressioni al ribasso anche a livello di misure di welfare: chi guadagnava poco non ha ricevuto grande protezione dallo Stato e non ha beneficiato della crescita del reddito nazionale”.

 

Mancano servizi alle famiglie e alle imprese

 

L’Italia, in particolare, sembra scontare un deficit di occupazione rispetto ad altri Paesi, anche in settori come quelli del Turismo e della Cultura. In Francia ci sono circa 1,5 milioni di posti di lavoro in più nell’ambito dei servizi alle famiglie e una cifra di poco inferiore in quello dei servizi alle imprese.

 

“Lo chiamano ‘neo-terziario sociale avanzato’”, spiega Ferrera. “È un mercato fatto di giovani qualificati, che in Francia gode di forti agevolazioni fiscali. Il Censis ha calcolato che in Italia per farlo emergere occorrerebbero circa 3 miliardi di euro”.

 

Invece di aumentare gli investimenti in crescita e nuove competenze, nel decennio successivo alla crisi la spesa per asili nido, scuola e formazione è diminuita. Si è fatto poco anche per l’inclusione delle fasce disagiate.

 

“Un reddito adeguato per tutti è fondamentale per combattere la povertà e avere una società coesa, ma non è sufficiente”, puntualizza Cantillon. “Occorre il lavoro, ma occorre soprattutto un lavoro che abbia senso: oggi l’attenzione è troppo concentrata sulla necessità di attivare le persone e meno sulla concreta disponibilità di posti di lavoro”.

 

L’esigenza di nuove forme di tutela e di protezione, aggravata dalla recessione e dalla crisi degli ultimi anni, si è avvertita in modo simile in tutta Europa. E proprio a livello europeo potrebbe oggi trovare nuove risposte.

 

Cantillon è fiduciosa: “L’Europa dovrebbe aiutare di più il Welfare State dei Paesi membri. Il focus è ancora sui bilanci e sull’occupazione, ma qualcosa si sta muovendo, prima con la Strategia di Lisbona e poi con gli obiettivi di Europa 2020. Sono convinta che nell’arco di 10 anni avremo politiche sociali europee più forti”.

 

Accanto alla contrattazione sul nuovo budget, a Bruxelles si sta infatti ragionando su un fondo per la stabilizzazione anticiclica e su nuovi strumenti per sostenere gli investimenti e le riforme strutturali. “L’Europa non è un ostacolo, anzi può diventare uno straordinario fattore di facilitazione”, concorda Ferrera. “Tutto dipenderà dalla capacità degli Stati di farsi aiutare nel modo giusto”.

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