Un welfare aziendale per ridurre le disuguaglianze sociali

Un welfare aziendale per ridurre le disuguaglianze sociali

In che modo le imprese possono colmare le lacune del welfare pubblico? È una delle sfide del welfare aziendale, chiamate a dare il proprio apporto in uno scenario nel quale le disuguaglianze rischiano di generare un nuovo conflitto sociale.

 

Sopperire a carenze del welfare State, proponendo servizi più tradizionali, o realizzare appieno la mission aziendale, progettando soluzioni innovative? Il dilemma sulla funzione del welfare si può risolvere analizzando la cultura aziendale dentro cui prende forma.

 

Questa la tesi di Elena Macchioni, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Alma Mater Studiorum, Università degli Studi di Bologna: “Come sociologa, il mio punto di osservazione sul tema è quello culturalista e delle trasformazioni del welfare, in ottica plurale”, osserva Macchioni.

 

“Le diverse semantiche del welfare aziendale presentano, come sostrato, diverse visioni in termini culturali. La risposta al quesito, dunque, non può essere così netta. La questione dirimente non è tanto quella che riguarda le tipologie di misure o il loro numero, ma le motivazioni, cioè le ragioni per cui l’azienda intraprende un’azione di welfare aziendale”.

 

Secondo l’esperta, “il welfare aziendale è il modo attraverso cui l’azienda attua la propria Corporate Social Citizenship nei confronti non soltanto degli stakeholder esterni, ma dei lavoratori, dunque rivolgendola anche all’interno e non solo al di fuori di sé”.

 

Il punto di vista sociologico è chiaro: “Per rendere efficace il piano di welfare non basta pensarlo a tavolino. Potrà essere, sulla carta, il migliore possibile, il più ricco, potrà mettere in gioco grandi risorse ma, se non è preceduto da un’analisi dei bisogni della popolazione aziendale e del contesto territoriale di riferimento, sarà del tutto inefficace”.

 

La soluzione di Macchioni, dunque, è la personalizzazione, unita alla flessibilità: “Basarsi solo sui numeri non dà risposte sufficienti”, osserva. “Se l’analisi, per esempio, di quanti hanno figli in età 0-3 anni si ferma al dato numerico, la misura di welfare più adatta potrebbe apparire il nido aziendale. Eppure – prosegue – potrei citare un noto esempio di una grossa impresa emiliana, il cui nido aziendale, bellissimo, moderno, curato, in realtà è stato totalmente inutilizzato”.

 

E comprenderne i motivi è fondamentale: “Questo perché i numeri sono importanti, ma non esaustivi. Probabilmente, le numerose mamme presenti in azienda avrebbero preferito i voucher per la baby-sitter, la garanzia di un part-time prolungato, l’orario flessibile, il telelavoro… magari avevano reti familiari radicate lontano dal luogo di lavoro, mariti con più tempo disponibile, nonni a disposizione, o non gradivano portare i propri figli nella zona industriale”.

 

Un’analisi che parte dai bisogni del lavoratore

 

Questi aspetti non le possono raccontare i numeri. “Ecco perché è bene che l’analisi dei bisogni preveda un mix di strumenti d’indagine, qualitativi e quantitativi. Lo si può fare proponendo, per esempio, più soluzioni fra cui scegliere, così da orientare meglio la pianificazione, coinvolgendo i diretti interessati”. Insomma, “non ci sono ricette migliori di altre: semplicemente, occorre riconoscere che al centro dei processi c’è il lavoratore, inteso proprio come persona”.

 

Se il lavoratore sta bene, “si attiva un circolo virtuoso per cui sarà più disponibile, produttivo e svilupperà riconoscimento e attaccamento aziendale. Se, con i piani di welfare, si vuole dare una risposta solo alle esigenze di miglioramento della produttività, allora saranno meno efficaci”.

 

Il 2009 fu l’anno in cui il tema del welfare aziendale entrò nel dibattito pubblico: le prime, grandi aziende avviarono importanti campagne di comunicazione su ciò che offrivano ai dipendenti. Con esse, nacquero le prime polemiche: se il programma di welfare si riduce a un incentivo per efficientare la produttività dei singoli lavoratori, allora siamo di fronte, al massimo, a un premio produzione, un benefit, ma non a una forma di welfare.

 

È chiaro che “ci sono zone, contesti, in cui, magari, il tradizionale nido aziendale costituisce una reale risposta a bisogni manifesti, così come, magari, lo sono altri strumenti di welfare più tradizionali, più compensativi rispetto a quello che offre il pubblico. Tuttavia, non si può dare ciò per scontato. Non si può parlare in assoluto di una misura giusta o sbagliata”.

 

Occorre analizzare bene le esigenze dei singoli dipendenti, “senza lasciare troppa libertà di spaziare nella proposta di soluzioni, perché ciò sarebbe ingestibile, ma suggerendo già a monte due, tre idee di possibile realizzazione e valutando quale di esse ha ottenuto maggiori consensi”.

 

Si pensi a soluzioni un po’ da prima rivoluzione industriale come la possibilità di fornire ai dipendenti alloggi gratuiti, o a canone calmierato, vicino all’azienda: “Se questa possibilità viene data per tenere questi il più possibile al lavoro e nel perimetro di controllo aziendale, sono una pessima idea. Se, invece, rispondono a una reale esigenza dovuta, per esempio, alle necessità dei pendolari, a quella di frequenti trasferte del personale, o per avvicinare le famiglie dei dipendenti, o, ancora, se la produzione è appena stata trasferita in un nuovo luogo, magari periferico, ecco che diventano un vantaggio concreto per il lavoratore”.

 

Comunicazione e accessibilità: chiavi del rapporto impresa-dipendente

 

Dunque, il giudizio ricade sul ‘perché’ e sul ‘come’, prima che sul ‘cosa’. L’analisi dei bisogni reali dei dipendenti non può essere totalmente avulsa da quella del contesto familiare e del territorio di riferimento. “Una volta individuato lo strumento migliore, questo va anche reso accessibile”.

 

“Per esempio, se una lavoratrice chiede e ottiene il part time, perché lo considera la soluzione migliore alle proprie esigenze di conciliazione, ma questo va rinegoziato con l’azienda ogni sei mesi, essa vivrà il beneficio non con sollievo, ma con preoccupazione, pensando che potrebbe trovarsi, a metà dell’anno scolastico dei figli, a perdere questo status, finendo a dover gestire una situazione nuova, imprevista, che implica una riorganizzazione pressoché impossibile da attuarsi”.

 

La fruibilità, dunque, deve avere anche uno sguardo rivolto al futuro: “Le misure, anche le più nuove, le più efficaci, vanno rese più accessibili e più flessibili”. L’altro aspetto determinante è quello della comunicazione: “Si tratta di un passaggio fondamentale, ma, spesso, trascurato. È chiaro che, se i dipendenti non sono a conoscenza delle opportunità che hanno, non potranno usarle”.

 

Questo aspetto, che potrebbe apparire banale, è invece particolarmente importante quando l’azienda sceglie di rivolgersi a uno dei provider presenti sul mercato, per erogare i servizi da essi previsti: “Anche questa soluzione non è un bene o un male di per sé. In questo caso, ancor più che negli altri, è fondamentale che il Provider offra la possibilità di spendere il portafoglio welfare con facilità, ma, allo stesso tempo, che il dipendente sappia utilizzare bene la piattaforma, comprenda bene il meccanismo”.

 

“In caso contrario, si rischia che il plafond a disposizione venga percepito dal lavoratore come un ‘di più’, da spendere a ogni costo tanto per finirlo. Ecco che queste soluzioni vanno necessariamente accompagnate da un investimento in termini di formazione, una sorta di ‘educazione’ delle piattaforme digitali”. Perché, conclude Macchioni, “senza consapevolezza e comunicazione interna si rischia di sprecare risorse, perdendo occasioni preziose per tutti”.

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