Il fenomeno sommerso dei dipendenti caregiver

Il fenomeno sommerso dei dipendenti caregiver

Conciliare vita privata e professionale può non essere semplice già di per sé, ma quando a questi due ambiti si aggiunge la responsabilità di prendersi cura di un’altra persona (che sia un familiare anziano o malato, i figli o amici in difficoltà) la gestione dell’intero quadro è ancora più complicato. Negli ultimi anni il tema del benessere psico-fisico dei lavoratori è sempre più al centro dei piani di welfare aziendale, con imprese che mettono a disposizione dei loro dipendenti programmi pensati ad hoc per i “caregiver informali”. Il problema è che molto spesso i lavoratori che si prendono cura dei familiari provano vergogna e timore nel chiedere aiuto, e si innesca così un circolo negativo all’interno dell’azienda, tra mancanza di supporto e riduzione della produttività. Di questi temi e delle possibili soluzioni ha parlato Anna Benini, Ceo di LianeCare durante il primo consegno di Tuttowelfare dal titolo “Strategie di benessere aziendale per la crescita delle PMI”.

 

Si parte dai dati, che evidenziano come sempre più persone, in Italia e Europa, sono allo stesso tempo lavoratori e caregiver. Secondo i dati dell’indagine Istat “Conciliazione tra lavoro e famiglia” (l’ultima sul tema pubblicata nel 2019), in Italia sono oltre 12 milioni le persone, tra i 18 e i 64 anni, impegnate in attività di cura verso figli, fratelli, genitori o altri parenti. A livello europeo (rileva Eurofound), più del 50% dei caregiver concilia il lavoro a tempo pieno o parziale con attività di assistenza ai familiari. Sono soprattutto le donne tra i 45 e i 64 anni che si devono assumere le principali attività di cura e nel 60% dei casi queste hanno dovuto abbandonare la propria attività per dedicarsi a tempo pieno (in media 7 ore al giorno di assistenza diretta e 11 ore di sorveglianza) alla cura nel contesto familiare di chi non è più autonomo. Ma l’attività di assistenza sta sempre più coinvolgendo anche gli uomini (sebbene rimanga un netto squilibrio tra uomini e donne in ruoli di leadership) e i giovani tra i 15 e i 24 anni.

 

Chi sceglie di portare avanti contemporaneamente il proprio lavoro e l’attività di assistenza è esposto a grandi fonti di stress che spesso sfociano in forme di depressione. A risentire di tutto questo è anche l’attività lavorativa, con gravi conseguenze per le aziende in cui i caregiver lavorano: il malessere del lavoratore porta all’aumento di assenteismo, ritardi in entrata e anticipi di uscita. Questo, a cascata, si riflette sui costi diretti delle aziende che si trovano a gestire un’alta rotazione del personale, con conseguente perdita di competenze o ricerca di soluzioni temporanee, una riduzione delle presenze dei lavoratori e quindi, infine, un calo della produttività. Per questo motivo è interesse delle stesse aziende prevenire l’insorgere di queste criticità proponendo misure che favoriscano l’equilibrio dei caregiver familiari, per esempio offrendo permessi, congedi, flessibilità lavorativa o un vero e proprio piano di welfare con servizi dedicati al caregiving.

 

Molte aziende si sono già attivate per offrire servizi dedicati. Il problema però, rileva Anna Benini, è che gli stessi dipendenti caregiver sono restii a utilizzare questi benefit perché non vogliono condividere con l’azienda informazioni personali sulla loro situazione. È infatti diffuso il timore di apparire poco coinvolti sul lavoro, troppo assorbiti da “preoccupazioni esterne” e quindi di essere percepiti come poco focalizzati e produttivi. Così, quando i responsabili HR indagano tra i dipendenti le aree di interesse in termini di welfare aziendale, la mancanza di richieste di bisogno sul piano del caregiving e uno scarso utilizzo dei benefit porta a credere che i dipendenti non siano interessati a questa sfera del welfare. Di conseguenza le aziende non sono incentivate a investire in piani di welfare dedicati e questo porta i caregiver a sentirsi ancora più isolati.

 

Per questo è importante, sottolinea Anna Benini, che le aziende promuovano al loro interno campagne formative e di sensibilizzazione al fine di cancellare i pregiudizi verso i caregiver informali. Creare un terreno di maggior comprensione e generare attenzione sul tema da parte dei leader che devono approvare gli investimenti nel welfare aziendale può contribuire significativamente alla prevenzione del problema. Tra i tanti strumenti che si possono attivare ci sono: l’offerta di personale di caring (come baby sitter, badanti e pet sitter) in grado di aiutare i dipendenti nelle loro attività di cura, supporto psicologico e di counselling per affrontare le fragilità, e formazione psicoeducativa per accompagnare i dipendenti ad affrontare ogni fase della vita.

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