Il Tfr come fonte di finanziamento della previdenza complementare

Il Tfr come fonte di finanziamento della previdenza complementare

Entro sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro, il dipendente deve scegliere se destinare il  Trattamento di fine rapporto alla previdenza complementare o se lasciarlo in azienda. Ecco gli elementi da tenere in considerazione per decidere.

 

Una delle scelte più delicate e importanti che deve fare un lavoratore dipendente riguarda l’utilizzo del proprio trattamento di fine rapporto (Tfr) a fini previdenziali.

 

Per i neoassunti è al momento in vigore la disciplina del silenzio assenso – anche se nell’ambito del tavolo di confronto in corso tra Governo e sindacati si ragiona sulla possibilità di aprire una nuova “finestra” di scelta per tutti, per rilanciare le adesioni alla previdenza complementare. In base alla disciplina attuale, dunque, entro sei mesi dall’avvio del rapporto di lavoro il dipendente deve decidere se destinare il proprio Tfr maturando (in tutto o in parte, a seconda che sia stato assunto prima o dopo il 29 aprile 1993 e in base a quanto previsto nell’accordo collettivo o nel regolamento aziendale) alla previdenza complementare o lasciarlo in azienda (adesione esplicita).

 

Se non si esprime alcuna scelta, si viene iscritti alla forma pensionistica collettiva individuata dal Contratto nazionale di lavoro o dall’accordo aziendale (adesione tacita). Nell’ambito dei fondi pensione riferibili alla contrattazione collettiva in prospettiva di welfare (preesistenti, negoziali, aperti ad adesione collettiva) si ha diritto al contributo del datore di lavoro solo in caso di adesione esplicita. Quali sono i profili di valutazione da tenere, dunque, in considerazione nella scelta sulla destinazione del Tfr?

 

La valenza previdenziale del Tfr

 

La previdenza complementare è strutturata sulla capitalizzazione dei versamenti, ragion per cui si crea un rapporto diretto tra quanto si versa e quanto si percepirà in età senile. Altri fattori determinati sono rappresentati dalla lunghezza del periodo di contribuzione, dalla efficacia ed efficienza della gestione finanziaria, dal livello di onerosità del piano previdenziale. Il Tfr “vale” il 6,91% della retribuzione annua di un lavoratore dipendente. Dunque, la scelta di farlo confluire nel fondo pensione collettivo, aggiunto al contributo del datore di lavoro e a quello del lavoratore, rafforza e incrementa in maniera sensibile la posizione individuale.

 

Il ragionamento è chiaro: a differenza di quanto accadeva per le generazioni precedenti, la pensione obbligatoria determinata dal metodo contributivo sarà di importo abbastanza più ridotto rispetto alle ultime retribuzioni, con la necessità di aderire alla previdenza complementare. Se, quindi, verso il Tfr al mio fondo pensione, riuscirò a integrare il mio tenore di vita in maniera molto più consistente.

 

Il passaggio psicologico non è, però, da sottovalutare. Occorre, infatti, superare quel comportamento che si definisce come “ancoraggio”: la scelta cioè di attenersi a elementi storicamente conosciuti dal vissuto del nostro Paese, come il Tfr, manifestando ritrosia a mutarne le sembianze con il conferimento a un fondo pensione. Senza considerare l’ulteriore barriera all’ingresso rappresentata dalla scarsa dimestichezza con il concetto di rendita.

 

Va anche valutato come il funzionamento dei fondi pensione sia stato modellato in modo simile al Tfr, grazie alla previsione di linee con garanzia di restituzione capitale-minimo garantito (per compensare la rinuncia alla rivalutazione legale cui si ha diritto se si mantiene il Tfr in azienda), la facoltà di richiedere anticipazioni, l’opzione di chiedere il 50% sotto forma di capitale e il 50% sotto forma di rendita in sede di prestazione finale (in alternativa alla modalità canonica del 100% sotto forma di rendita).

 

Non va, poi, sottovalutato il plus fiscale: il Tfr mantenuto in azienda è soggetto al regime di tassazione separata (l’aliquota Irpef più bassa è il 23%), mentre la prestazione finale di un fondo pensione è soggetta a imposta sostitutiva del 15%, che si riduce dello 0,30 per ogni anno di durata superiore al quindicesimo con un minimo del 9%.

 

Un esempio numerico

 

Sull’effetto concreto del conferimento del Tfr particolarmente eloquente è un esempio numerico riportato nella Guida introduttiva alla previdenza complementare pubblicata sul sito della Covip. Si riportano due casistiche di lavoratori dipendenti, entrambi con reddito annuo lordo di 30mila euro.

 

Il primo nel primo anno versa un contributo pari all’1,5% della sua retribuzione lorda (450 euro), l’intera quota del Tfr futuro pari al 6,91% della sua retribuzione lorda (2.073 euro) e riceve dal suo datore di lavoro un contributo pari all’1,5% della sua retribuzione lorda (450 euro). L’ammontare del versamento totale è quindi pari a 2.973 euro. Si ipotizza un rendimento reale (cioè al netto dell’inflazione) del 2% annuo, un costo di gestione dell’1% della posizione individuale, una crescita reale della retribuzione annua dell’1%, un tasso di inflazione annuo del 2%, l’applicazione delle tavole demografiche IPS55. Dopo 37 anni di contribuzione accumula nel fondo pensione 142mila euro reali lordi, di cui 29mila derivano dai contributi e 47mila dai rendimenti netti.

 

Il secondo lavoratore, invece, mantiene il Tfr in azienda. Dopo 37 anni accumulerà un capitale pari a 100 mila euro reali lordi, di cui 37mila provengono dalla rivalutazione del Tfr. Per effetto dell’adesione alla previdenza complementare, il primo lavoratore accumulerà in 37 anni 42mila euro in più del secondo.

 

Il Tfr maturato

 

Last but not least, va posto un altro interrogativo. Per incrementare ancor di più il proprio montante in accumulazione, è possibile valutare anche il trasferimento del Tfr maturato, vale a dire lo stock che era già accantonato in azienda?

 

Con due risposte a quesito nel 2009 e nel 2014, la Covip, interpretando quanto previsto nella Legge di Bilancio per il 2008 e alcune pronunce dell’Agenzia delle Entrate ha ritenuto possibile la devoluzione al proprio fondo pensione anche del Tfr pregresso maturato dopo il 1° gennaio 2007 (data di entrata in vigore della nuova disciplina della previdenza complementare), nel caso di lavoratore dipendente da imprese con meno di 50 dipendenti, in accordo con la propria azienda.

 

In caso di aziende con più di 50 dipendenti, l’Autorità di Vigilanza rinvia invece all’Inps la pronuncia, per competenza. La normativa prevede, infatti, che nel caso in cui il lavoratore decida di non aderire alla previdenza complementare, il datore di lavoro non mantenga materialmente presso di sé il Tfr, ma lo debba trasferire al cosiddetto Fondo di Tesoreria presso l’Inps.

 

In un recente messaggio, l’Ente di previdenza obbligatoria ha ritenuto che non fosse possibile il trasferimento al fondo pensione del Tfr maturato, considerando che il Fondo di Tesoreria è configurabile come una gestione di natura previdenziale per cui le quote di Tfr versate al Fondo soggiacciono al regime della indisponibilità, ferme restando le ipotesi di pagamento anticipato del Tfr nei casi e nei limiti previsti dalla normativa.

 

L’ordinamento vigente, prosegue l’Inps, non prevede poi che il lavoratore possa esercitare la facoltà di trasferire le quote di Tfr pregresso dal Fondo di Tesoreria al fondo di previdenza complementare al quale, successivamente, ha scelto di aderire. Infatti, nell’ambito della normativa applicabile al Fondo di Tesoreria, la portabilità non risulta in alcun modo disciplinata dalla normativa in vigore.

 

* Lorenzo Giuli è un esperto di previdenza complementare

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