Previdenza complementare e distorsioni cognitive, il ruolo possibile del welfare aziendale
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Previdenza complementare e distorsioni cognitive, il ruolo possibile del welfare aziendale

 

A fine 2019 si contano 9,133 milioni posizioni attive presso le forme pensionistiche complementari. La scarsa educazione finanziaria e la continua evoluzione della materia allontanano soprattutto i giovani, attirati dal welfare-fai-da-te e poco inclini alle rendite.

 

Secondo le ultime statistiche della Covip, crescono, sia pure lentamente, le adesioni alla previdenza complementare. Alla fine del 2019, il numero delle posizioni in essere presso le forme pensionistiche complementari si attesta a 9,133 milioni. La crescita nell’anno è stata di 393mila unità (4,5%). A questo numero, che include anche le posizioni relative a coloro che aderiscono contemporaneamente a più forme, corrisponde un totale degli iscritti che può essere stimato in 8,310 milioni di individui.

 

Rimangono però ancora inevasi i nodi della non sufficiente inclusione di categorie particolarmente esposte al rischio previdenziale, come i giovani e le donne. Ancora ridotto è poi il livello di adesione dei lavoratori delle Piccole e medie imprese (PMI) e dei dipendenti pubblici, per i quali al momento l’offerta contrattuale è limitata ai fondi Espero (scuola) e Perseo Sirio (dipendenti Pubblica Amministrazione e Sanità).

 

L’importanza dell’educazione previdenziale

 

Non sembra un caso che il rilancio della previdenza complementare sia uno dei punti principali del confronto in atto tra governo e sindacati per pianificare un nuovo intervento di riordino del nostro sistema pensionistico. Tra le ipotesi maggiormente accreditate vi è quella di prevedere una nuova finestra di silenzio-assenso per catalizzare l’attenzione generale e favorire meccanismi di “spinta gentile”.

 

Davvero utile sarebbe lavorare in senso istituzionale e contrattuale per innalzare il livello di educazione finanziaria in generale e previdenziale più nello specifico. Con riferimento al primo aspetto, va ricordato che dal 2017 è stato istituito, con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, di concerto con il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e con quello dello Sviluppo economico, il Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria, che ha lo scopo di promuovere e coordinare iniziative utili a innalzare la conoscenza e le competenze finanziarie, assicurative e previdenziali tra la popolazione e migliorare la capacità di fare scelte coerenti con i propri obiettivi e le proprie condizioni.

 

Tra le diverse iniziative messe in campo, l’organizzazione in ottobre del Mese nazionale dell’educazione finanziaria e il lancio di uno specifico sito istituzionale, quellocheconta.gov.it. Ruolo di notevole importanza possono poi svolgere le parti sociali, stimolando e promuovendo anche in accordi aziendali corsi o momenti di approfondimento di educazione previdenziale.

 

Le principali distorsioni cognitive

 

Al di là delle nozioni strettamente tecniche, andrebbe affrontato il problema di come supportare il processo di conoscenza da parte dei lavoratori per affrontare e superare quelle distorsioni cognitive che derivano anche dalla continua evoluzione normativa del nostro sistema previdenziale.

 

Quali sono? La prima è un atteggiamento più o meno consapevole di attesa di una prossima riforma. In un Paese come il nostro, in cui gli interventi correttivi delle pensioni a partire dagli Anni 90 sono stati frequentissimi e il livello di comprensione non è elevatissimo, ci si pone inerti ad aspettare una situazione di maggiore stabilità. Nella stessa prospettiva si pone una genetica tendenza a rinviare le decisioni importanti, tra cui anche quella di aderire ai fondi pensione.  Rinunciare a costruire da subito la propria integrazione pensionistica su base aziendale o collettiva nazionale significa rinunciare al contributo datoriale, non beneficiare dei rendimenti finanziari dell’investimento, non godere dei vantaggi fiscali.

 

Vi sono poi altri due profili di particolare delicatezza. Il continuo dibattito in corso e gli interventi normativi che hanno innalzato in maniera sensibile l’età pensionabile possono provocare inconsciamente la sensazione che difficilmente si “taglierà il traguardo” del pensionamento con un sillogismo del tipo “l’età della pensione è sempre più elevata, non raggiungerò mai la pensione, è inutile allora fare sacrifici per risparmiare per la pensione integrativa”.   

 

Vi  può essere poi, soprattutto per i giovani, una distorsione cognitiva che tende a reputare poco utile la previdenza complementare perché i propri familiari più adulti (genitori) o “diversamente giovani” (nonni) non ne hanno avuto bisogno, avendo avuto la pensione di base calcolata con il metodo retributivo e non contributivo come i Millennials o la Generazione Z (nel tavolo di confronto in atto tra governo e sindacati si sta ragionando anche della possibilità di introdurre una pensione minima di garanzia nel contributivo per garantire ai ragazzi uno scudo dai periodi di vuoti contributivi o dal ritardato ingresso nel mercato del lavoro).

 

Altro “impedimento dirimente” è la tendenza ad un welfare fai-da-te utilizzando altri strumenti finanziari per integrare la pensione, rinunciando così ai benefici fiscali dei fondi pensione e, nella fattispecie dei lavoratori dipendenti, al contributo datoriale. Last but not least, c’è una forte predilezione per il capitale “lump sum” e una forte ostilità percettiva per la rendita, prestazione principale di un fondo pensione, davvero poco conosciuta nella percezione collettiva anche per mancanza di esperienza (fino ad ora il tema previdenziale era sostenuto quasi per intero dal pubblico), ma di straordinaria utilità prospettica sia per integrare la pensione di base che per coprire dal “rischio longevità”.

 

* Lorenzo Giuli è un esperto di previdenza complementare

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