Sostegno alle famiglie e aiuti ai giovani: il welfare fondato sui nonni
Selective focus family grandfather holding his hephew looking to light of sun rise. Beautiful warm family loving concept

Sostegno alle famiglie e aiuti ai giovani: il welfare fondato sui nonni

Anche in tempi di crisi, i redditi da pensione restano una certezza: il 44% delle coppie con figli dipende dagli assegni del nonno. Tra denatalità e precariato, la riforma del Welfare State italiano è oggi più urgente che mai.

 

 

Nell’ultimo report sulle condizioni di vita dei pensionati, l’Istat ha evidenziato dati significativi. Uno su tutti: il 44% delle famiglie qualificabili come “coppie con figli” dipende dalla pensione di un nonno per il proprio welfare.

 

Si tratta di persone che, per età, dovrebbero avere un reddito da lavoro idoneo a garantire una vita autonoma alla famiglia che hanno creato, eppure continuano a dipendere dai propri genitori. Il dato è senz’altro destinato a crescere: anche se verranno attivati tutti gli ammortizzatori sociali possibili, per tanti lavoratori, soprattutto precari, autonomi o con contratti a tempo determinato, l’emergenza determinata dalla diffusione del Covid-19 porterà pesanti conseguenze.

 

Non solo sul reddito, ma anche sulle misure di welfare, completamente sovvertite dalla situazione unica e inaspettata che ci troviamo a vivere. I redditi da pensione restano una certezza, ma è presto per fare previsioni economiche anche solo a medio termine. Abbiamo chiesto a Massimo Baldini, Professore Associato presso il Dipartimento di Economia “Marco Biagi” dell’Università di Modena e Reggio Emilia ed esperto di previdenza e scienza delle finanze, di aiutarci a comprendere meglio i dati del report Istat.

 

I giovani non più giovani

 

“I giovani italiani si distinguono in Europa per l’elevata età media in cui escono dalla famiglia di origine: ben 30 anni, contro una media della Unione Europea di 26. Addirittura, in Svezia l’emancipazione avviene a 20 anni”, osserva Baldini. L’età media si è leggermente innalzata durante la crisi iniziata nel 2008. “In Italia molti giovani dipendono direttamente dai genitori, perché ancora vivono con loro sebbene adulti. Altri continuano a dipenderne attraverso trasferimenti intergenerazionali, che in diversi casi coinvolgono anche i nonni”.

 

Questo “sistema distorto” tende a perpetuare se stesso. Ecco perché il professore è favorevole a una riforma delle pensioni, attesa per il 2020, dopo la legge Fornero che tanti cambiamenti ha apportato. Da Opzione donna a Quota 100, passando per l’Ape sociale, è tempo di una riforma più radicale. Pare che le novità più rilevanti riguarderanno proprio gli aspetti di welfare per i giovani e i caregiver. D’altra parte, l’istituto della pensione nasce proprio come ammortizzatore sociale, anche se, negli anni, ha assunto caratteristiche ben diverse.

 

“Sostenere che non si devono riformare le pensioni perché con esse si mantengono anche i giovani è un ragionamento che purtroppo fanno ancora in molti, ma che fatica sempre più a stare in piedi”, sostiene Baldini. “I nonni hanno bisogno di risorse per finanziare una vita sempre più lunga, ma in cui purtroppo gli ultimi anni sono trascorsi spesso non in buona salute. Inoltre, molti genitori hanno perduto il lavoro o si sono riconvertiti in occupazioni a più basso reddito rispetto a 15 anni fa”.

 

La protezione della vecchiaia e il futuro dei giovani

 

Inizialmente l’istituto della pensione fu pensato in ottica di solidarietà intergenerazionale. Finché il lavoro era stabile e continuativo – spesso uno solo per tutta la vita – il tasso di occupazione era alto. Chi lavorava versava i contributi per chi era andato in pensione prima di lui. Poi, questo sistema non è diventato più sostenibile: giovani precari, con carriere frammentate e “atipiche”, si sono trovati a dover sostenere “pensioni d’oro” non più replicabili. Non solo: nel passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, i lavoratori attivi si sono trovati a dover pagare per chi li aveva preceduti e anche per se stessi.

 

Il cambiamento non è stato solo economico, ma anche sociale. Nel report Istat si evince come moltissime famiglie dipendano dagli assegni dei pensionati che ne fanno parte. Nello specifico, nel 52,2% dei nuclei in cui sono presenti sia pensionati sia altri membri, più del 50% del reddito deriva dai primi. Succede persino nel 38,4% delle famiglie in cui il membro non pensionato possiede un reddito da lavoro: con tutta probabilità, si tratta di un salario inferiore alla pensione del genitore o partner con cui vive.

 

Il Welfare State italiano è tradizionalmente sbilanciato a favore della protezione della vecchiaia”, osserva Baldini. “In Italia la spesa per le pensioni rappresenta infatti una quota della spesa sociale totale molto superiore rispetto agli altri Paesi europei. In questi anni di crisi, i redditi dei pensionati hanno continuato a salire, sia perché dipendono da diritti acquisiti che non sono stati messi in discussione sia perché entrano in pensione generazioni che hanno avuto carriere lavorative continue e con buoni redditi, quindi hanno maturato il diritto a ricevere pensioni elevate”.

 

È dunque inevitabile che, in un periodo di crisi, i redditi che continuano a crescere possano contribuire a sostenere maggiormente i redditi che invece non crescono o diminuiscono, come quelli da lavoro. “Il modello italiano di Welfare State si distingue da quello dell’Europa centro-settentrionale per il minor peso dei servizi e per la maggiore importanza della famiglia allargata nel sostenere il benessere della persona. La transizione verso un modello più ‘moderno’ in Italia è resa molto complessa dalle continue richieste di nuova protezione che provengono dai gruppi sociali il cui benessere è messo a repentaglio da crisi, globalizzazione e progresso tecnologico. Questi gruppi sociali richiedono allo Stato un aiuto immediato, in denaro, non più servizi. Da qui politiche come la riduzione dell’Irpef, ma soprattutto il reddito di cittadinanza e Quota 100”.

 

Non è un Paese per giovani

 

D’altra parte, il nostro Paese invecchia. La natalità è in forte calo e questo desta molte preoccupazioni. La soluzione per la sopravvivenza delle famiglie con genitori trenta-quarantenni oggi sembra solo una: avere il nonno o la nonna in casa, che possa allungare un po’ della propria pensione a figli e nipoti sfortunati, visto che è anche raddoppiato il numero dei minori con genitori disoccupati o inoccupati. Almeno finché questi figli e nipoti non diventeranno nonni a loro volta.

 

Il problema è che, per allora, probabilmente i soldi (pubblici e non) saranno finiti. Come si può tentare di arginare questa deriva? Si può riformare il sistema pensionistico senza intaccare diritti acquisiti e rendendolo più equo ed efficiente? Secondo il professor Baldini, “bisogna ripristinare una corrispondenza tra aumento della speranza di vita ed età di pensionamento. Einaudi diceva che la pensione deve servire a coprire gli ultimi 5 anni di vita. Non dico certo di tornare a Einaudi, ma non si può pensare di finanziare 20 anni di pensione con 35 anni di lavoro”.

 

La strada principale è la flessibilità. “Chi va in pensione prima deve sapere che la sua pensione sarà inferiore rispetto a quella di una persona che lavora più a lungo, a parità di contributi. Certo occorre salvaguardare i lavori usuranti, ma senza stravolgere il significato del termine ‘usurante’ estendendolo troppo”.

 

Il Welfare State al tempo del precariato

 

Coloro che sono pensionati oggi, dicevamo, avevano lavori sicuri, che spesso duravano tutta la vita. Ma il precariato, il lavoro atipico, le diverse forme di prestazione d’opera, non permettono più di ambire alla tranquillità della pensione. Cosa dovrebbe fare, allora, la Generazione Z per tentare di “crearsi” il proprio welfare futuro?

 

“Tony Blair amava dire che il suo programma si componeva di tre punti: education, education, education. Sarò un ottimista, ma credo che il mercato del lavoro offra ancora, anche in Italia, molte prospettive per chi ha investito su sé stesso in termini di istruzione, capitale umano, competenze”, dice Baldini. Il professore assolve i giovani, che sono in generale sempre meno a causa del declino della natalità. “Quelli bravi sono un sottoinsieme, quindi saranno richiestissimi. Si studi poi quello che si vuole, greco antico, storia dell’arte o matematica, purché però si sappiano fare tre cose: scrivere bene in italiano, parlare bene in inglese e saper programmare almeno un po’. La vita lavorativa sarà sempre più lunga e ci sarà tempo per acquisire nuove conoscenze, quindi l’importante è saper studiare”.

 

Venendo poi alle strategie di welfare, “la pensione integrativa è sicuramente una buona idea, soprattutto per lo sconto fiscale importante a essa associato, ma anche perché è sempre bene non mettere tutte le uova nello stesso paniere. Il vantaggio principale della pensione integrativa è proprio la possibilità di investire le proprie risorse su attività situate in tutto il mondo, liberando la pensione futura dalla dipendenza dal basso tasso di crescita dell’economia nazionale e dal negativo futuro demografico italiano. È quindi importante continuare a incentivare l’adesione ai fondi pensione”.

 

“L’investimento principale che i giovani dovrebbero fare sul loro welfare è occuparsi di più di politica, per capire quali scelte – e sono tante – il governo nazionale o l’ente locale continua spesso a fare contro i loro interessi, e scegliere di conseguenza”. Lo sviluppo del welfare aziendale permette di godere delle economie di scala che un grande numero di soggetti riesce a ottenere quando contratta con un’assicurazione o un prestatore di servizi, rispetto al singolo isolato. La crescente eterogeneità nella produttività delle imprese consente ad alcune di fornire molti servizi che ad altre sono preclusi. Le differenze possono in parte essere superate da accordi a livello di settore, senza dimenticare comunque che il ruolo centrale nella fornitura di servizi di qualità deve essere svolto dal welfare pubblico.

 

Pensioni e povertà

 

C’è da dire che, secondo l’Istat, anche i pensionati non fanno i nababbi, almeno non tutti. Uno su tre è povero. Il 36,3% riceve ogni mese meno di mille euro lordi, il 12,2% non supera i 500. Un pensionato su quattro percepisce un reddito lordo sopra i 2 mila euro. Tra i pensionati esiste una disuguaglianza di reddito molto significativa che si riflette sul territorio: il Nord assorbe metà della spesa. Le più penalizzate sono le donne, perché sono anche le più precarie nel lavoro, impegnate nel lavoro di cura “dalla culla alla bara”. Tutte le famiglie che dipendono dai redditi poveri dei pensionati sono, a loro volta, a rischio povertà: il 15,9%, ha calcolato l’Istat.

 

“Negli ultimi dieci anni sicuramente la povertà tra i pensionati è diminuita, o almeno non è aumentata, mentre è cresciuta tra le altre fasce di età”, precisa Baldini. Spesso si dice che in Italia i poveri sono i giovani, “ed è sicuro che tra i giovani la percentuale di poveri è molto alta, ma i giovani sono sempre meno. In termini di numero totale di poveri, le fasce generazionali con maggiori problemi sono quelle dei cinquantenni: sono tanti, molti di loro sono stati messi in crisi dalla recessione e dai cambiamenti tecnologici e non hanno ancora raggiunto l’età della pensione”. La politica ne affronta i problemi soprattutto cercando di dare loro un reddito che possa anticipare la pensione, come con il reddito di cittadinanza e Quota 100. “Ma è un importante serbatoio di lavoro che l’Italia non può permettersi di sprecare: servono riqualificazione e formazione, non solo assistenza”.

 

Quanto alla povertà tra i pensionati, il Welfare State ha già fatto molto da un punto di vista reddituale. Siamo indietro invece nella fornitura di servizi: si pensi alla non autosufficienza. “Un altro ambito nel quale il mercato fatica a trovare soluzioni adeguate è la casa: troppi anziani vivono in abitazioni sproporzionate alle loro esigenze, che potrebbero fornire liquidità per incrementare il loro reddito corrente”, conclude Baldini. “Certo qualche erede andrà deluso, ma il patrimonio immobiliare degli anziani potrebbe meglio essere usato per sostenere il loro tenore di vita piuttosto che quello dei giovani”.

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