Il welfare aziendale visto dai sindacati

Il welfare aziendale visto dai sindacati

Luci e ombre dei piani di benessere aziendale oggi sul mercato. A scattare la fotografia gli esponenti dei principali sindacati nazionali, che ne hanno evidenziato i pregi, i difetti e come potrebbero essere migliorati per andare davvero incontro alle esigenze di tutti i lavoratori.   

 

Welfare aziendale e sindacati, un rapporto di odio –amore. Le principali sigle italiane non bocciano o promuovono il welfare aziendale nel suo insieme. Ma mettono in evidenza come il giudizio debba riguardare non tanto l’aspetto quantitativo, quanto quello qualitativo. Non è un caso che nell’accordo del 9 marzo scorso fra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria il welfare contrattuale, se integrativo e non sostituivo del sistema pubblico, sia stato considerato dagli addetti al settore come uno dei pilastri delle relazioni industriali e del modello contrattuale. E, visto che sul tema non si può generalizzare, Tuttowelfare.info ha sentito le diverse sigle sindacali per capire la loro posizione sui piani di benessere aziendale e in che modo, secondo loro, questo settore può essere ulteriormente migliorato.

 

Uil: no al welfare dei benefit

 

«Dal nostro punto di vista un buon welfare aziendale è quello che risponde alle necessità sociali delle persone, favorendo la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e, più in generale, la cura dei cittadini. In molti casi questo è stato fatto, e su questi il nostro giudizio è positivo. È vero, d’altra parte, che c’è stata anche una proliferazione del cosiddetto welfare dei benefit, meramente sostitutivi del salario: questa è la strada che non ci piace», spiega la Segretaria confederale Tiziana Bocchi. «La valorizzazione delle persone nel contesto lavorativo e nella dimensione privata e familiare è un fattore positivo», prosegue. «Sia perché contribuisce a migliorare la qualità del lavoro sia perché le trasformazioni della società richiedono una sempre maggiore attenzione alla vita delle persone anche fuori dai luoghi di lavoro.

 

Limiti. Ma bisogna prestare attenzione al rischio di sostituire la parte economica, in particolare i premi di risultato, con l’erogazione di prestazioni di welfare.  Quando questo principio non viene rispettato a farne le spese sono gli stessi lavoratori nel loro futuro. Perché sulle prestazioni non vengono versati né i contributi previdenziali né il Tfr». Esiste poi un altro aspetto da tenere in considerazione per la Bocchi: «Il welfare deve essere integrativo e, di conseguenza, mai sostitutivo di quello pubblico. Questo perché la contrattazione di secondo livello non potrà mai avere quei caratteri di universalità tipici del sistema pubblico».

Soluzioni. Come superare i possibili limiti del modello attuale? «Occorre costruire piani di welfare sociale, puntando a includere prestazioni quali i permessi per malattie e visite pediatriche, i congedi parentali, il part-time per esigenze familiari, le convenzioni per asili nido, flessibilità oraria, sostegno allo studio, così come tutte quelle misure che, appunto, facilitino la conciliazione della vita professionale con quella privata», va avanti. Cercando sempre di andare incontro alle esigenze dei dipendenti.
«All’interno dell’ampia gamma di prestazioni di welfare, le più utili sono quelle con contenuti maggiormente universali come la previdenza complementare e l’assistenza sanitaria integrativa», conclude Bocchi. «Subito a seguire ci sono quelle che riguardano la genitorialità, la cura degli anziani, la tutela della non autosufficienza, la formazione e lo studio, ma anche il trasporto delle persone. In sintesi, andrebbero preferite le prestazioni con importante rilevanza sociale».

 

Cgil: il welfare non deve essere un catalogo di servizi che orienta i consumi

 

«Il fenomeno del welfare aziendale si sviluppa in base a una legislazione di favore che si introduce  attraverso le leggi di stabilità (2016/2017/2018) in materia di detassazione del premio di risultato e in particolare con la legge di stabilità del 2017 che amplia l’ambito applicativo del regime agevolato», fa notare Delia Nardone, Responsabile bilateralità Cgil nazionale.
«Gli effetti di questo ampliamento comportano, oltre alla creazione di un mercato specifico di riferimento con offerte di pacchetti welfare, che si possa dare vita a progetti molto diversi. Ciò avviene il più delle volte senza che ci siano state indagini specifiche di quelle che sono le esigenze dei lavoratori di quell’azienda, andando solo a concepire un’offerta più o meno tipizzata con cataloghi costruiti che determinano anche fenomeni di orientamento al consumo. Insomma, il problema riguarda i modelli di welfare messi in campo. Se ci limitiamo a driver come l’area della salute, della previdenza, della non autosufficienza e della conciliazione è un discorso. Ma le piattaforme attualmente offrono di tutto e di più». Inoltre esiste anche un altro pericolo da non sottovalutare.

 

Limiti. «Il rischio maggiore che intravediamo è che il fenomeno possa portare a un indebolimento complessivo del welfare universale con una funzione dello Stato sempre più marginale», conferma. «Ovvero che si metta in moto una distorsione del fenomeno che si orienti verso soluzioni individualistiche e corporative  con il rischio di smontare culture e pratiche sindacali. Ci poniamo anche un quesito: questo fenomeno di crescita di attività di welfare può diventare veramente una risposta alle nuove domande di protezione sociale in termini collettivi o può diventare uno strumento destinato a penalizzare ulteriormente il potere di acquisto dei lavoratori?».

 

Soluzioni. Nonostante queste perplessità un modo per migliorare i modelli esistenti esiste. «Il welfare aziendale andrebbe orientato verso servizi che possano essere fruiti da una fascia di utenti che vada oltre i lavoratori che hanno dato vita all’accordo, su direttrici che rispecchino le fasi di vita del lavoratore e della sua famiglia, tenendo conto anche di fattori dimensionali», conclude. «Bisogna dare vita a una contrattazione aziendale che intercetti bisogni specifici di una determinata popolazione lavorativa conciliandole con le esigenze dell’azienda e del suo territorio. Cercando anche di incidere nelle scelte delle istituzioni pubbliche per definire nuovi indirizzi di politiche sociali più rispondenti alle realtà territoriali».

 

Cisl: sì al welfare come allargamento della sostenibilità del lavoro produttivo di oggi e di domani

 

«Siamo di fronte a una tendenza finalmente significativa e interessante. La contrattazione aziendale tra le parti sociali è sempre più caratterizzata da intese che cercano di rendere vicine e utili forme di welfare per le persone che lavorano. Dai pochi significativi accordi concentrati in alcune grandi aziende siamo passati in pochi anni a un numero importante di imprese e di lavoratori coinvolti. Si calcola che il 41% degli accordi aziendali che prevedono premi di risultato negli ultimi due anni abbiano anche previsto forme di welfare aziendale. Si tratta di una diffusione significativa che porta questo tema a essere trainante nel rilancio della contrattazione e delle relazioni tra impresa e lavoro», commenta Roberto Benaglia, del dipartimento contrattazione Cisl. «Adesso decisiva è la sfida di diffondere il più possibile, in tutti i settori e soprattutto nelle Pmi, soluzioni di welfare concreto e socialmente utile». Affinché questo accada occorre che i progetti messi in campo rispondano davvero ai bisogni dei lavoratori. «Il welfare in azienda non deve diventare una nuova forma di consumo, ma un allargamento della sostenibilità del lavoro produttivo di oggi e di domani. Sempre più i lavoratori e le lavoratrici presentano bisogni di conciliazione vita lavoro ed esigenze di nuovi servizi (legati soprattutto ai carichi familiari) che hanno bisogno di risposte concrete», precisa Benaglia.
«Il welfare contrattato in azienda e costruito sulla base dei reali bisogni si dimostra uno strumento di grande e crescente interesse, teso a coniugare competitività delle imprese con benessere dei lavoratori. Ma serve che tutti i lavoratori vi possano accedere e che anche i non standard siano ricompresi in queste nuove forme di tutela».

 

Limiti. Al momento qualche limite questo modello lo presenta. «Troppo spesso ci troviamo di fronte a imprese che acquistano pacchetti di welfare a prescindere dai reali bisogni della propria popolazione lavorativa.

 

Soluzioni. Per evitarlo sarebbe opportuno sottoporre i dati sull’utilizzo reale del welfare aziendale a una verifica da parte dei lavoratori, per orientare scelte più opportune”.

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