La svolta culturale del welfare

La svolta culturale del welfare

Musei, concerti, palazzi d’epoca, luoghi storici, teatro possono accelerare e  migliorare il processo di formazione dei dipendenti. Del resto, secondo diversi studi scientifici, la partecipazione culturale, attiva  nel nostro corpo la produzione di serotonina, l’ “ormone del buonumore”. Inserire in modo appropriato i processi di disseminazione culturale all’interno di un sistema di welfare e  farli diventare parte integrante dei servizi socio-assistenziali e sanitari offerti diventa, quindi, strategico per le aziende.

 

Da una parte le imprese, il cui obiettivo principale è la massimizzazione del profitto. Dall’altra la cultura, un bagaglio indispensabile per la crescita sociale e personale di qualunque individuo. Adesso questi due mondi, solo in apparenza contrapporti, possono incontrarsi su un piano completamente inedito, quello del cosiddetto welfare culturale. Ossia una serie di benefit grazie ai quali le imprese hanno la possibilità di accelerare e migliorare il processo di formazione dei propri dipendenti proprio attraverso il patrimonio artistico e culturale del nostro Paese. Un  esperimento di questo genere è stato compiuto recentemente in Piemonte, con una serie di incontri di formazione professionale organizzati all’interno di parchi e luoghi storici di inestimabile valore. I lavoratori delle aziende che hanno aderito hanno avuto la possibilità di seguire workshop molto speciali, grazie ai relatori della società specializzata nella formazione manageriale Poliedra progetti integrati. «L’idea alla base di questo progetto è di valorizzare alcune location storiche e poli museali del territorio utilizzandoli come contesti di formazione professionale completamente nuovi», spiega Michele Tassistro di Poliedra. «Al momento in Piemonte hanno aderito Castello del Roccolo, Forte di Vinadio e Filatoio Rosso di Caraglio. Spesso il mondo della cultura incontra quello delle imprese per chiedere finanziamenti, per essere sostenuto. Noi ci siamo chiesti, invece, cosa possa fare la cultura per le aziende. La risposta è nel welfare culturale: attraverso la valorizzazione delle location è possibile organizzare attività di formazione a favore dei dipendenti». La formazione avviene quindi così in modo nuovo, attraverso attività dinamiche che coinvolgono musica, arte, teatro, arte contemporanea e danza. Ma anche attraverso un’interazione diretta fra lavoratori e luoghi di interesse storico. Inoltre vengono utilizzati strumenti nuovi, dal videomaking allo storytelling. «Recentemente al Castello del Roccolo abbiamo organizzato un workshop che prenedeva spunto dal romanzo L’isola del tesoro», prosegue l’esperto. «Nel parco sono stati creati alcuni punti di formazione, fra i quali le persone si muovevano come in una sorta di gioco di ruolo».  Per le imprese che partecipano si tratta di un investimento importante, perché da una parte contribuiscono a migliorare le competenze professionali dei propri dipendenti e dall’altra offrono loro l’occasione di crescere dal punto di vista culturale e personale.

 

La cultura è arricchimento personale e professionale

 

L’idea di estendere il welfare aziendale alla cultura è nata dalla consapevolezza che anche in Italia questi benefit stanno acquisendo molta importanza, sia nel privato sia nel pubblico. Mentre cresce il numero di lavoratori coinvolti da questi progetti. «Finora le imprese hanno approcciato il welfare in modo molto pratico, offrendo asili per i bambini o possibilità di smart working, solo per citare qualche esempio», dice ancora Tassistro. «Adesso si offre loro la possibilità di fare un passo in più, arricchendo i loro dipendenti grazie alla cultura». Ma come si raggiunge questo obiettivo? «Quando le aziende pianificano il proprio welfare interno nella maggior parte dei casi organizzano anche percorsi di formazione», spiega l’esperto. «Grazie a questo progetto possono offrire un’esperienza diversa da quelle tradizionali. Non limitandosi ad arricchire le competenze immediatamente utili per la mansione svolta dal lavoratore, ma accrescendo la sua cultura generale. In questo modo in azienda si crea un clima più favorevole dal punto di vista umano, mentre cresce esponenzialmente il senso di appartenenza».

 

L’arte fa bene all’umore…

 

Del resto, secondo alcuni studi scientifici la partecipazione culturale, attiva  nel nostro corpo la produzione di serotonina, nota anche come “ormone del buonumore”, che contrasta la sensazione di stress e aumenta  il benessere. Anche una una serie di indicatori  dell’indagine Istat 2016 richiamano le positive evidenze dei rapporti cultura-salute-longevità da cui risulta che l’astensione culturale coincide con un giudizio negativo sulla propria salute, mentre il contrario accade in caso di una vita culturale più soddisfacente.  Per questo la cultura entra a pieno titolo nei programmi di welfare aziendale. «Parlare di welfare culturale vuol dire inserire in modo appropriato ed efficace i processi di produzione e disseminazione culturale all’interno di un sistema di welfare e quindi farli diventare parte integrante dei servizi socio-assistenziali e sanitari che garantiscono ai cittadini le forme di cura e accompagnamento necessarie al superamento di criticità legate alla salute, all’invecchiamento, alle disabilità», ha detto Pierluigi Sacco, professore ordinario di economia della cultura presso l’Università IULM di Milano durante il convegno dedicato al tema Cultura, salute, benessere che si è tenuto a Roma lo scorso febbraio.

 

…E influisce positivamente sulla motivazione dei dipendenti

 

Proprio questo è uno dei maggiori vantaggi per chi decide di inserire la cultura nel proprio piano di welfare. «Non solo. Dalla nostra esperienza ci siamo resi conto che a migliorare sono molti altri aspetti. I team sono più coesi, i lavoratori sono più attenti rispetto al mondo che li circonda. E poi aumentano motivazione, comunicazione interna all’azienda, cooperazione, collaborazione fra colleghi e in generale la fedeltà nei confronti dell’impresa per la quale si opera». Per il momento questo esperimento, cominciato nel 2016, è stato compiuto solo in Piemonte. In poco meno di due anni sono stati seguiti circa duemila lavoratori, dipendenti delle 12 aziende che finora hanno creduto in questo progetto. Fra quelle che nelle prossime settimane aderiranno ci sono Michelin, Alstrom e Merlo. «Normalmente sono più sensibili a questa nuova forma di welfare le multinazionali. Ma piano piano si stanno avvicinando anche i piccoli imprenditori più illuminati», conclude Tassistro. Non a caso alcune  delle società di consulenza specializzate nel welfare aziendale hanno iniziato a offrire sui loro portali servizi che vanno in questa direzione. Un esempio viene da Jointly che con Museum Personal Trainer offre un tipo di welfare culturale customizzato per le aziende clienti e i loro dipendenti: visite a musei, mostre, eventi, guidate da una persona esperta di storytelling che stimola il pubblico a costruirsi la propria esperienza condividendo commenti e immagini.

 

La grande sfida

 

Certo la svolta culturale del welfare rappresenta una bella sfida come ben scrive Flaviano Zandonai su Vita.it perché «sottende una rivoluzione dei modelli di servizio che si definiscono “di pubblica utilità” e delle loro economie, uscendo da una logica prestazionale iper specialistica ed educando invece competenze orizzontali e soft vocate al community building e alla coproduzione. Questo significa una revisione profonda della formazione professionale e dei contratti di lavoro per immettere (o rigenerare) le competenze imprenditive di una nuova generazione di operatori dell’esperienziale: capaci di fare comunità amplificando le loro capacità connettive nei rapporti face to face, nei contesti digitali e tra locale e globale».

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