Il welfare aziendale manda ko il burnout
Female office worker is tired of work and exhausted. She has burned down and has depression.

Il welfare aziendale manda ko il burnout

L’esaurimento o crollo per lo stress è ormai stato riconosciuto come problema associato alla professione e riguarda molti lavoratori. Sopratutto categorie più a rischio come donne e caregiver. Le aziende devono sempre più tenere conto di questi aspetti per il benessere dei propri dipendenti.

 

Un tempo a esserne colpiti erano soprattutto medici, psicologi, infermieri, insegnanti e chiunque altro svolgesse una professione di aiuto e/o assistenza. Oggi, invece, la sindrome da burnout è ufficialmente riconosciuta per tutte le categorie di lavoro dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che l’ha inserita tra i “problemi associati alla professione”.

 

Ma di cosa parliamo quando parliamo di burnout? Nella nostra lingua si traduce in termini abbastanza eloquenti come “esaurimento” o “crollo”. Bisogna tuttavia premettere che non si tratta di una vera e propria malattia, bensì di un insieme di sintomi che portano “a uno stress cronico da lavoro”; tra questi la mancanza di energie e di motivazione; sensazioni di negatività e cinismo legate alla propria professione; una diminuzione generale delle proprie prestazioni; infine, l’aumento dell’isolamento sul posto di lavoro.

 

Oggi, dunque, a differenza del passato, è possibile riconoscere la sindrome e diagnosticarla, cercando di correre ai ripari prima che sia troppo tardi. A giocare un ruolo chiave in questo processo sono le aziende, che attraverso pratiche di ascolto consapevole e l’attuazione di misure di welfare ad hoc possono dare un notevole contributo al miglioramento delle condizioni psicologiche dei propri dipendenti.

 

Più lavoro, più stress

 

Di criticità nel quotidiano si è occupato anche il secondo rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, secondo il quale 5,3 milioni di italiani soffrono di sintomi da stress legati al lavoro; 4,5 lamentano di non avere tempo per se stessi (hobby, riposo, ecc.); 3,6 hanno difficoltà a conciliare le attività familiari con la carriera; 2,4 si trovano a gestire conflitti in famiglia a causa del sovraccarico professionale.

 

“Oggi tutti dobbiamo fare i conti con l’intensificazione del lavoro, ovvero quella sensazione di dover dare di più, produrre di più”, spiega Alberto Perfumo, Fondatore e Amministratore di Eudaimon. Ma dove ha origine questa tendenza? “Viviamo nell’epoca della digitalizzazione e dell’impresa 4.0, dove i ruoli e i processi aziendali cambiano di continuo e ai lavoratori viene chiesto di imparare sempre nuove mansioni, spesso senza il sostegno dell’azienda”.

 

Poi ci sono anche le preoccupazioni personali, “che sono difficili da gestire perché di frequente dobbiamo fare i conti con servizi pubblici non sufficienti, il che richiede a chi si occupa della propria famiglia degli sforzi extra”, sottolinea.

 

Ma non sono solo i caregiver a essere soggetti a questo tipo di stress: “Seppur in misura minore anche i Millennials si trovano a gestire una buona dose di preoccupazioni, che deriva da una serie di nuove responsabilità: il primo affitto da pagare, la prima dichiarazione dei redditi da compilare, come investire i propri risparmi”.

 

I lavoratori sono dunque pressati da questa doppia combinazione di stress. Le aziende, però, non possono e non devono lasciarli soli: “Un business lo fanno le persone, perciò quello che colpisce loro finirà per impattare anche sulle imprese. Quest’ultime dovrebbero assicurarsi di avere dipendenti sereni e non stressati, pronti a reagire alle nuove sfide dettate dalla propria professione”, aggiunge Perfumo.

 

Facile a dirsi, difficile a realizzarsi: “Le aziende devono dare ai propri lavoratori attenzioni e servizi che gli permettano di migliorare la vita quotidiana e di alleggerire i carichi personali. Devono poi concedere la possibilità di sbagliare serenamente, perché così facendo incentivano il loro coraggio e la loro creatività”. Un sostegno a 360 gradi “che rende l’individuo più robusto e meno predisposto ad andare in tilt in un momento di difficoltà”, conclude il Fondatore di Eudaimon.

 

Caregiver e donne, le categorie più a rischio burnout

 

Seppur ormai la sindrome da burnout possa colpire tutti, giovani e meno giovani, ci sono due categorie che sono particolarmente a rischio e che spesso si sovrappongono tra loro. Facciamo riferimento ai caregiver e alle donne che, oltre al peso e alle responsabilità del lavoro, prendono sulle loro spalle anche la cura dei propri bambini e/o genitori anziani.

 

A inquadrare il fenomeno in maniera più ampia ci ha pensato uno studio della Harvard Business School, dal titolo The caring company. Il rapporto ha lanciato un monito ben preciso: se le aziende continueranno a trascurare il crescente peso del caregiving, rischieranno di ritrovarsi con impiegati sempre più stressati e meno motivati, con un impatto notevole sull’intera organizzazione.

 

Nella peggiore delle ipotesi, poi, il rischio è di perdere totalmente quei dipendenti, seppur validi e formati, perché talvolta il carico familiare diventa troppo difficile da gestire. Stando ai dati raccolti dallo studio, infatti, solo il 24% dei caregiver ha ammesso che talvolta il peso delle proprie responsabilità familiari può danneggiare il proprio lavoro; il 54% si è invece detto demotivato per la mancanza di sfide professioni, il 50% a causa di scatti salariali minori e il 46% per un percorso di carriera poco soddisfacente.

 

Elisa Vimercati, Responsabile del team Ricerca e Sviluppo di MAAM, offre un’esauriente interpretazione dello studio: “L’indagine ci dice che la situazione dei caregiver, che nella gran parte dei casi sono donne, è la punta dell’iceberg di una crisi del lavoro nei confronti delle attività di cura, crisi che da un lato demotiva le persone, dall’altro evidenzia come gli imprenditori ancora sottostimino la portata di questo fenomeno”.

 

Spesso, infatti, non si rendono conto dell’impatto temporale del caregiving: “Gli incarichi personali coinvolgono diversi momenti nell’arco della giornata e hanno delle conseguenze a livello mentale; le persone hanno necessità di vario tipo, da quelle organizzative a quelle relazionali e spesso si ritrovano a incastrare a forza la cura e il lavoro”.

 

Un altro dato significativo della ricerca ci dice che ben tre quarti dei dipendenti si fa carico di questo compito, tuttavia “i datori di lavoro spesso non se ne accorgono o non gli danno abbastanza peso e così facendo inducono un cortocircuito per cui le persone preferiscono non dichiarare le loro difficoltà e rinunciano ad accedere agli strumenti che le imprese mettono a disposizione in questo senso”, spiega.

 

Il problema, dunque, è che le aziende tendono a prendere sottogamba la questione e che le persone stesse faticano a parlarne. Una tendenza che, se sottovalutata, può portare al burnout: “Nel momento in cui l’attività di cura viene tenuta nascosta e non viene legittimata, la fatica per i caregiver si raddoppia, perché dovranno anche fare i conti con il senso di colpa che arriva dal chiedere un semplice permesso”, sottolinea.

 

Cosa dovrebbero fare allora le organizzazioni per rendere più semplice la vita ai lavoratori? “Sicuramente strumenti di gestione come lo Smart working o l’orario flessibile vanno in direzione della legittimazione del fenomeno”. Nei momenti più delicati, però, ci vuole qualche attenzione in più: “Il 31% delle persone che rientrano al lavoro dopo il congedo di maternità o una lunga malattia lamentano la mancanza di un corretto processo di re-inserimento”.

 

Per questo “con il master MAAM proponiamo dei programmi di formazione aziendale che non solo rendono più semplici questi momenti, ma denotano la maternità o alcuni momenti di difficoltà personale come occasioni per sviluppare una serie di risorse e di competenze soft che torneranno utili anche nella propria professione”.

 

Le buone pratiche 

 

Se riconoscere e curare la sindrome da burnout non è cosa facile, molto si può fare dal punto di vista della prevenzione. E qui entrano in gioco le aziende, il cui contributo può avere un inestimabile valore. L’ascolto è la base di qualsiasi relazione datore di lavoro-lavoratore che si rispetti; ma deve essere una pratica attiva e consapevole.

 

Un esempio positivo arriva da Michelin Italia, che proprio di recente ha attivato l’Employee Room, un luogo all’interno dell’azienda cui i dipendenti possono far riferimento in caso di problemi, chiarimenti e proposte. Un modello ‘people care’, basato sull’idea che l’azienda avanza solo se nessuno viene lasciato indietro.

 

Anche per Tecnest, impresa che fornisce soluzioni software e servizi per la pianificazione e gestione della produzione, l’ascolto e la condivisione vengono al primo posto. In questo modo le persone sono più motivate a raggiungere degli obiettivi comuni e a fare squadra, aspetto importante quando si parla di benessere sul lavoro.

 

Ruolo fondamentale è anche quello giocato dalle iniziative a sostegno della famiglia; Cobo, azienda leader che opera nel settore dell’elettrotecnica dal 1946, ha collaborato con le amministrazioni locali per il finanziamento di un nido comunale su cui i propri dipendenti possono contare in termini di priorità, mentre Henkel, società leader nell’Adhesive Technologies, Beauty Care e Laundry & Home Care privilegia le forme di Smart working per andare incontro alle esigenze personali degli impiegati e ha inoltre puntato su un rinnovo dei propri spazi, in modo da garantire la creazione di nuove sinergie.

 

Misure piccole e grandi, ma sempre significative; d’altronde per prevenire un disturbo come quello da burnout è necessario partire dalle persone e dal loro carico personale, provando ad alleggerirlo per rendere il quotidiano lavorativo sempre più soddisfacente.

About the Author /

ludovica.liuni@tuttowelfare.it