Privatizzare la sanità con gli sgravi del welfare
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Privatizzare la sanità con gli sgravi del welfare

Ci sono servizi di welfare aziendale che rischiano di impattare sulle casse pubbliche. È il caso della sanità integrativa quando diventa un costo aggiuntivo per quella pubblica, sottraendo risorse al welfare state.

 

 

Mentre la sanità pubblica è in grave difficoltà, gli incentivi fiscali alimentano i profitti privati in questo ambito, senza integrare realmente l’offerta assistenziale. Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione Gimbe, è perentorio nel descrivere il fenomeno dell’utilizzo dei fondi sanitari integrativi non più come complemento della sanità pubblica, scopo per cui nacquero nel 1992, ma in sostituzione a essa: “Ci stiamo lentamente muovendo verso una silenziosa privatizzazione della sanità, che aumenta le diseguaglianze sociali e accresce il consumismo sanitario”.

 

La Fondazione Gimbe (Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze), nata nel 1996 con lo scopo di promuovere e realizzare attività di formazione e ricerca in ambito sanitario, ha da poco presentato un report sulla sanità integrativa ed è stata ricevuta in udienza in Parlamento nell’ambito della Indagine conoscitiva in materia di fondi integrativi del Servizio sanitario nazionale.

 

“La sanità integrativa nasce con lo scopo di offrire, attraverso enti no profit, prestazioni sanitarie complementari a quelle del servizio pubblico, per esempio di tipo odontoiatrico”, argomenta Cartabellotta. “Negli ultimi anni, però, essa è diventata la prima e più diffusa forma di welfare aziendale offerta dai contratti collettivi nazionali e dalle aziende ai propri dipendenti”.

 

È su questo punto che si insinua il primo ‘corto circuito’: “È accaduto che i fondi, enti no profit, si sono riassicurati con compagnie assicurative, per problemi di solvibilità. Ma nel tempo le compagnie sono diventate anche gestori attivi dei fondi e ci siamo trovati di fronte al fatto compiuto di enti commerciali che gestiscono attività nate all’interno di un contesto no profit”.

 

Questa situazione danneggia tutti i cittadini: “La natura giuridica degli enti no profit consente la detrazione fiscale dei soldi spesi per le prestazioni sanitarie fruite attraverso di essi; peccato che si tratti di un’assenza di lucro solo de iure e non de facto”. Ecco che, sostanzialmente, il mancato versamento di queste imposte “si ripercuote su tutta la comunità, ma in particolare sulle persone più fragili, quelle che non possono usufruire della sanità integrativa perché non lavorano, sono precari o sono lavoratori autonomi”.

 

Questo mancato introito fiscale ha conseguenze su tutti gli aspetti del welfare pubblico, quindi anche sulla sanità stessa: “Proprio qui si insedia il secondo ‘corto circuito’ perché i lavoratori che fruiscono di questo benefit si trovano, di fatto, a pagare due volte le prestazioni sanitarie, quelle pubbliche e quelle private”.

 

Ciò è dovuto al fatto che, essendo ormai quasi tutte prestazioni sostitutive e non complementari – come invece accadeva nell’intento originario del Legislatore – “chi fruisce di una prestazione privata ne avrebbe tranquillamente diritto anche nel pubblico”.

 

Un welfare che fa più male che bene

 

La principale obiezione potrebbe essere legata ai tempi d’attesa, che tutti sappiamo essere quasi sempre più lunghi nel Ssn, molto più ridotti, invece, quando ci si rivolge a cliniche private. Ma il Presidente di Gimbe ha la risposta pronta anche a questa obiezione: “La sanità integrativa, comunque, non garantisce prestazioni urgenti o altamente specialistiche come avviene nel Ssn. Anche nel pubblico i tempi di attesa più lunghi si riferiscono a prestazioni quasi sempre differibili, già a giudizio del medico di medicina di base”.

 

Infatti, “non è dimostrato che accelerare i tempi di alcuni esami o visite influisca positivamente sullo stato di salute delle persone; anzi, è semmai vero che un’eccessiva medicalizzazione, anche in senso preventivo, aumenti i costi sanitari per le persone, in maniera spesso inutile o anche, a volte, dannosa, indirizzandoli verso un percorso diagnostico o di cura non necessario”.

 

Ecco che, a quanto pare, ci sono servizi di welfare aziendale che fanno più male che bene al lavoratore: “Sentiamo spesso dire che la sanità costa, che se qualcuno non può permettersi le cure è destinato a stare male; in realtà in Italia a nessuno mancano le cure necessarie”.

 

Il nostro servizio sanitario nazionale, in effetti, è considerato un modello e un esempio in gran parte del mondo: “Questo sistema di welfare sanitario sostitutivo e non complementare, come dicevamo, diminuendo il gettito fiscale nelle casse dello Stato, favorisce proprio le diseguaglianze e, quindi, aumenta il rischio che lo Stato non abbia i fondi per curare chi ne ha davvero bisogno”.

 

Un’iniziativa come quella della sanità integrativa, dunque, che nasce con tutti i crismi del no profit, finisce all’opposto per alimentare “i profitti dell’intermediazione finanziaria e assicurativa”: infatti, secondo l’analisi della Fondazione Gimbe, “le compagnie assicurative, oltre a riassicurare i fondi, svolgono sempre più il ruolo di gestori ‘propositivi’, ovvero offrono una rete capillare di erogatori privati accreditati e propongono ‘pacchetti’ di prestazioni che alimentano il consumismo sanitario, facendo leva sulle inefficienze del Ssn (tempi di attesa) e su un concetto distorto di prevenzione (‘più esami’ uguale a ‘più salute’)”.

 

Quest’ultima equazione “è tutta da dimostrare” per Cartabellotta, che evidenzia come “questi fondi tendano a offrire pacchetti, magari preventivi, spesso perfettamente inutili in assenza di sintomi o altri segnali, facendo leva sui meccanismi psicologici e le paure delle persone e finendo per medicalizzarle in maniera totalmente sproporzionata ai loro reali bisogni”.

 

La commercializzazione dei fondi sanitari

 

Il decreto Crescita dell’attuale Governo “ha riconosciuto la natura non commerciale dei fondi sanitari, nonostante ben l’85% di essi siano ormai gestiti da compagnie assicurative, permettendo, di fatto, che vengano concesse agevolazioni fiscali a imprese commerciali”, alimentando un vero paradosso.

 

Cartabellotta, inoltre, denuncia come “la normativa sul welfare aziendale abbia ridotto ulteriormente il gettito fiscale, con il benestare dei sindacati, che hanno ‘barattato’ una quota di salario e Tfr con agevolazioni minime per i lavoratori”. Gimbe, infatti, ha calcolato che ben il 40% dei servizi di welfare aziendale riguardano forme di sanità integrativa.

 

Grazie ai dati ufficiali dell’Anagrafe dei fondi sanitari integrativi, mantenuta dal Ministero della Salute, unitamente ad altre fonti, Gimbe ha scoperto che “il 32% sono risorse destinate a prestazioni veramente integrative e non sostitutive, mentre consta di 11.164 milioni di euro l’ammontare dei contributi versati ai fondi portati in deduzione da persone fisiche, per una spesa fiscale complessiva di 3.361 milioni di euro, considerando un’aliquota Irpef media del 30%”.

 

Inserendo questo in un quadro di grave sofferenza per il Ssn, si può dire che “a legislazione vigente, fondi sanitari integrativi e welfare aziendale costituiscono un sofisticato e parzialmente occulto strumento di privatizzazione della sanità, che erode sempre più risorse alla finanza pubblica, le redistribuisce in maniera iniqua, aumenta la spesa sanitaria totale senza ridurre quella delle famiglie e alimenta il consumismo sanitario, aumentando i rischi per la salute delle persone legati a fenomeni di sovra-diagnosi e sovra-trattamento”. Insomma, secondo Cartabellotta è fondamentale curarsi meglio, per poter curare tutti.

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