Il welfare entra nelle strategie aziendali

Il welfare entra nelle strategie aziendali

Il welfare visto in una prospettiva che va oltre la dimensione di benefit erogati dall’impresa, cioè quella della Corporate Social Responsibility, diventando il mezzo su cui fondare le strategie aziendali. Con al centro le persone e il dialogo.

 

 

Da una parte il welfare come ‘tassello’ di una politica della gestione delle Risorse Umane; dall’altra il welfare legato al tema della Corporate Social Responsibility (CSR). La recente evoluzione del fenomeno ‘welfare’ ci pone di fronte all’analisi di un welfare a due facce: nel primo caso siamo nell’ambito dei beni e servizi – molti dei quali godono di sgravi fiscali introdotti a più riprese dal Legislatore – e si tratta di un welfare che opera in chiave suppletiva, perché offre risposte alle carenze del Welfare State (primo welfare); nel secondo caso, quello legato alla CSR, diventa uno strumento per dare concretezza alle strategie aziendali, perché si fonde con l’identità dell’organizzazione stessa.

 

Niente di nuovo all’orizzonte, per la verità, perché già negli Anni 50 si teorizzava la necessità, da parte delle aziende, di realizzare azioni considerate ‘desiderabili’ con la società. Bypassata l’epoca di Milton Friedman e delle imprese concentrate esclusivamente sulla generazione di profitti, si è tornati oggi a predicare che le organizzazioni impegnate solo sul proprio interesse sono destinate ad avere vita breve (Marco Vitale), fino al monito all’etica di Papa Giovanni Paolo II, secondo il quale è possibile che i conti economici siano in ordine, ma con il rischio che uomini (lavoratori) siano umiliati e offesi nella loro dignità.

 

Ecco allora che il welfare si può configurare come tassello delle strategie aziendali. Lo spiega Armando Tursi, Ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università degli Studi di Milano, che invita ad andare oltre al welfare aziendale come forma di compensazione non monetaria dei dipendenti o come forma sussidiaria di protezione sociale dei lavoratori: “È tempo che ne venga messa a fuoco anche la valenza di strumento di Responsabilità Sociale delle imprese, e quindi come vettore di un nuovo modo di intendere e coniugare la finalità e la natura stessa dell’impresa”.

 

Il tema è stato di recente al centro di un evento coordinato dallo stesso Tursi, dal titolo Welfare aziendale e Responsabilità sociale delle imprese, organizzato dalla sezione di Diritto del Lavoro del Dipartimento di Diritto Privato e Storia del Diritto dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con la Fondazione Giuseppe Pera, con il Consiglio provinciale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano e con il Master di Diritto del Lavoro e Relazioni Industriali dell’ateneo milanese.

 

Valutare la diversità delle persone

 

La conciliazione del welfare con la CSR passa però da un cambiamento del modello di governance, come sostiene Luca Solari, Professore Ordinario di Organizzazione Aziendale dell’Università degli Studi di Milano. Nel welfare legato ai temi della Responsabilità Sociale dell’Impresa è avvenuto il passaggio dall’attenzione per gli shareholder alla centralità degli stakeholder (o meglio, multi stakeholder).

 

Vuol dire, in particolare rispetto ai beni-servizi promossi per le persone, passare dal modello del paternalismo degli imprenditori inglesi che ha caratterizzato la prima rivoluzione industriale, a quello dove il welfare è gestito pensando agli utilizzatori finali, se non addirittura co-costruito insieme con i dipendenti, per farsi carico dei desideri-preferenze dei collaboratori.

 

Quest’ultimo aspetto mal si concilia, però, con la necessità imposta dal Legislatore nell’ambito della defiscalizzazione dei servizi di welfare di “raggruppare” le persone in gruppi omogenei: “È una contraddizione, perché il welfare deve rispondere a esigenze di persone che sono per natura diverse e hanno bisogno differenti”, sostiene.

 

Sempre secondo Solari, il tema centrale per chi si occupa di welfare aziendale è utilizzare questa leva per “ricostruire una relazione con le persone”, ponendole realmente al centro. Che non vuol dire puntare sulla ‘consumerizzazione’ del welfare, bensì sull’individuare un’organizzazione capace di utilizzare il welfare come strumento di dialogo.

 

“Oggi il mondo consumer ci ha abituato a dire la nostra su tutto e questo ha un riflesso anche in ambito aziendale, in particolare nei servizi di welfare: se non si offre la possibilità di dialogo, allora è del tutto normale che ci sia un basso utilizzo dello strumento”. Da qui il richiamo di un’ulteriore tematica, quella della “responsabilità”: “Liberare non vuol dire solo eliminare i vincoli, piuttosto significa l’assunzione di responsabilità sulle decisioni”.

 

Questo richiama dunque investimenti in formazione-informazione per far comprendere ai dipendenti i vantaggi che possono godere oggi rispetto ad alcuni servizi-beni di welfare, ma soprattutto rispetto a quelli realizzabili nel futuro. Ecco allora che serve accompagnare le persone a prendere le decisioni: “Non vuol dire obbligarle, ma affiancarle nella trasformazione organizzativa”.

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