Il welfare sociale che trasforma l’azienda in comunità

Il welfare sociale che trasforma l’azienda in comunità

Il risultato della ricerca Eudaimon-Censis fa emergere quanto l’azienda rappresenti il luogo privilegiato per creare il senso di comunità, attraverso lo sviluppo del welfare sociale.

 

 

Negli ultimi anni c’è stata una forte espansione del welfare aziendale, per gran merito delle agevolazioni fiscali previste dalle leggi di Stabilità che si sono susseguite dal 2016 a oggi e dedicate alle imprese che adottano misure di benessere per i propri dipendenti. La novità di questa pratica, unita ai vantaggi economici evidenziati, l’ha tuttavia presto resa una ‘moda’: molte aziende hanno deciso di ‘testare’ i piani di welfare per analizzarne solo successivamente i risultati e verificarne così l’allineamento con i propri obiettivi.

 

Le aziende si sono concentrate – vuoi per convenienza, facilità o poca cultura – a concedere beni e servizi che integrassero la retribuzione dei dipendenti, sfruttando il vantaggio economico che questi offrono, in quanto non sono considerati parte integrante del reddito a fini fiscali e contributivi.

 

I risultati della ricerca svolta da Eudaimon in collaborazione con il Censis nel 2018 hanno evidenziato che impostare piani di welfare focalizzati sulle politiche retributive conduce al rischio di una deriva del welfare stesso. Il timore, maturato a seguito di quanto emerso, era, dunque, che il welfare restasse confinato in un pacchetto di benefit indistinti, trasformandosi in una commodity in grado di ottimizzare lo scambio di risorse economiche fra azienda e dipendenti (il cosiddetto welfare retributivo), senza mai innovarsi in chiave sociale, aspetto su cui noi lavoriamo con convinzione e di cui siamo certi che rappresenti l’evoluzione del welfare.

 

Tuttavia, dopo la prima fase di espansione del welfare, complice anche il quadro normativo di riferimento rimasto di fatto immutato, molte aziende hanno deciso di attuare un’analisi dei risultati delle strategie di welfare adottate, iniziando a riflettere in particolare sulle potenzialità dello strumento e sulle sue possibili evoluzioni, rispetto ai valori e agli obiettivi aziendali. Da questa riflessione, in linea con la nostra visione, è nato lo stimolo a modificare la visione del welfare aziendale, iniziando a considerarlo come una leva per l’innovazione sociale.

 

Equità e mutualità per creare comunità

 

Dalla ricerca Eudaimon-Censis del 2019, il dato più interessante – e del tutto inatteso soprattutto dopo quanto emerso nella rilevazione precedente – riguarda il fatto che un lavoratore su due (il dato vale per tutti gli inquadramenti, dall’operaio al dirigente) considera l’impresa come il luogo della convergenza di interessi.

 

La straordinarietà del dato emerge chiaramente se si considerano due aspetti di contesto. Innanzitutto che il risultato della ricerca Eudaimon-Censis è in netto contrasto con quanto evidenziato dal Rapporto Sociale Annuale, svoltosi nello stesso periodo, secondo cui gli italiani sono mediamente caratterizzati dal ‘sovranismo psichico’ e dalla tendenza all’isolamento nei confronti della società, preferendo chiudersi in una piccola ‘comunità’ fatta dall’individuo e da pochi soggetti a lui vicini. In secondo luogo, in questa particolare fase storica, la maggior parte delle aziende non ha impostato una strategia di welfare per trasformarsi in una comunità, come invece viene considerata dai lavoratori.

 

A fronte di queste considerazioni, è chiaro allora come sia insita nell’uomo l’esigenza di appartenere a un gruppo. Ognuno di noi, infatti, appartiene a differenti ‘comunità’, siano esse fisiche o virtuali. Questi gruppi, però, ci rappresentano solo parzialmente e non ci consentono di sviluppare un profondo senso di identificazione.

 

L’azienda è il luogo dove i dipendenti passano gran parte del loro tempo, investendo energie per raggiungere obiettivi pratici e concreti, comuni e condivisi. Da qui l’identificazione dell’impresa come il luogo ideale per la ricostruzione del senso, oggi perduto, di comunità e per ricominciare a creare relazioni. La maggioranza delle organizzazioni non ha maturato questa consapevolezza, anche perché lo scenario nel quale siamo immersi – si consideri, per esempio, il mercato del lavoro piatto – non stimola le aziende a cambiare atteggiamento.

 

Dal risultato della ricerca Eudaimon-Censis, dunque, si può dedurre come l’azienda sia un ‘terreno fertile’ per introdurre un nuovo tipo di welfare: quello sociale (o community welfare). L’idea di impresa come comunità, infatti, si traduce nel fatto che i dipendenti la considerino come il luogo ideale per sviluppare il welfare sociale, contribuendo quindi alla creazione di un ambiente favorevole alla sua introduzione. In questo modo si attiva un circolo virtuoso capace di mantenere positività all’interno dell’impresa. Secondo la nostra visione, l’evoluzione del welfare è destinata a orientarsi verso la creazione di comunità e grazie ai servizi di care giving, che significa la capacità di offrire servizi di equità e mutualità, in grado di esaltare il senso stesso di un gruppo.

 

Dal flexible welfare al community welfare

 

Come anticipato, nella prima fase del welfare aziendale, le aziende si sono orientate verso beni e servizi utili per l’integrazione della retribuzione, forse anche per la loro semplicità di attuazione e, ovviamente, per le agevolazioni fiscali messe a disposizione dal Legislatore.

 

Siamo nel campo del flexible welfare, la tipologia di welfare che ha l’obiettivo di integrare la remunerazione del dipendente. In questo modo il lavoratore, oltre allo stipendio, può utilizzare, per esempio, i buoni per acquistare l’abbonamento in palestra, i libri di scuola per i figli e così via. Molti provider di welfare aziendale offrono, infatti, alle aziende piattaforme, semplici e facilmente accessibili, da cui i dipendenti accedono a veri e propri cataloghi virtuali scegliendo, tra i servizi disponibili, ciò che preferiscono e utilizzando come valuta i propri crediti welfare.

 

Ma questo è quello che si lega alla prima fase del welfare. La novità è rappresentata dal community welfare, ovvero il welfare sociale, che comprende l’offerta di servizi consulenziali, volti a facilitare la vita dei dipendenti rispetto a quelli che sono i loro bisogni primari con l’obiettivo di migliorare il work-life balance delle persone.

 

Infatti, l’esigenza di molte aziende – per quanto spiegato in precedenza – va oltre la gratificazione economica dei propri dipendenti. In particolare, le Piccole e medie imprese puntano a un maggior engagement dei lavoratori e il loro obiettivo è mostrare la capacità di prendersi cura delle proprie persone. Molti player del welfare aziendale – Eudaimon ne è un esempio – stanno già introducendo le aziende a questa nuova tipologia di servizio, spiegando alle organizzazioni che si tratta di un investimento in grado di produrre benefici a lungo termine.

 

Per la verità, esistono già aziende che, da anni, mettono a disposizione dei propri lavoratori la consulenza di professionisti specializzati in vari settori – per esempio quello assicurativo – che offrono le loro prestazioni a prezzi vantaggiosi o addirittura in forma gratuita proprio grazie all’accordo stipulato con l’organizzazione.

 

Si tratta quindi di servizi che possono rientrare nel welfare sociale, ma al momento sono proposti in forma stand alone e non si fanno rientrare nella strategia di welfare; di conseguenza non sono comunicati nel modo corretto e ciò fa perdere loro significato e valore. Questo dimostra che le aziende sono già pronte ad affrontare questo passaggio e non hanno neppure bisogno di convincere le proprie persone, bensì devono concentrarsi su come allineare certe attività di welfare rispetto agli obiettivi che vogliono perseguire.

 

L’approccio flex and community: una visione strategica

 

Le due tipologie di welfare appena raccontante sono agli antipodi. Non è mia intenzione esprimere un giudizio su quale modalità sia migliore rispetto all’altra, però è necessario chiarire come sia impossibile ottenere lo stesso risultato attivando le due differenti strategie di welfare. Le politiche di natura retributiva e quelle di natura sociale, infatti, sono due strumenti differenti che, inevitabilmente, conducono a risultati differenti.

 

Per questi motivi, ogni azienda dovrebbe approcciare il welfare analizzando prima i propri obiettivi, per intraprendere poi il percorso più idoneo e introdurre il piano maggiormente allineato con quanto si vuole raggiungere. Per esempio, se si vogliono gratificare i lavoratori con un’integrazione della remunerazione, è sicuramente più indicato implementare il welfare retributivo.

 

Ma se l’impresa vuole prendersi cura dei propri dipendenti, allora è inevitabile che la scelta debba orientarsi verso il community welfare. Insomma, la strategia messa in atto dopo i primi provvedimenti normativi, con l’approccio di introdurre il welfare per poi valutare in seguito la valenza di quanto fatto, ormai è sorpassata. Così come realizzare piani di welfare sbilanciati in un senso (retributivo) o nell’altro (sociale).

 

Nella maggioranza dei casi, infatti, gli obiettivi dell’azienda rispecchiano entrambe le modalità di approccio al welfare perché ogni impresa desidera offrire ai propri dipendenti un’integrazione della retribuzione, ma anche dare una risposta ai loro bisogni più profondi. In quest’ottica può essere utile specificare che le due modalità di welfare non sono in competizione, ma anzi possono tranquillamente convivere. Una visione più ad ampio spettro – e probabilmente la soluzione più utile alla maggior parte delle aziende – è quella di operare intrecciando le due tipologie di welfare, in quello che può essere definito come approccio flex and community.

 

In questo modo è possibile coniugare il desiderio di integrazione remunerativa dei dipendenti con le loro esigenze primarie, dimostrando che l’azienda ha a cuore i dipendenti e si prende cura di loro come fossero parte di una comunità. Ciò genera ingaggio e gratitudine da parte dei lavoratori nei confronti della propria impresa, che sa riconoscere le loro necessità e offrire una soluzione ai loro problemi. La conseguenza diretta è, inoltre, l’aumento del senso di comunità dei dipendenti che, sempre più, si legheranno alla propria azienda.

 

Dal punto di vista del mercato il welfare sociale risulta ancora una novità: pochi sono i player del welfare aziendale che stanno orientandosi in questa direzione o che stanno implementando questa soluzione fra le loro offerte. I motivi sono molteplici: primo fra tutti è la difficoltà di spiegare lo strumento, visto l’investimento economico che l’azienda deve fare per potervi accedere.

 

Come abbiamo spiegato, però, il tempo sembra propizio perché le aziende accolgano questa tipologia di welfare, aprendosi all’introduzione e alla sperimentazione di questi servizi. Certo è necessario – e questo aspetto non è secondario – raccontare e spiegare la portata del piano di welfare, senza che i servizi a esso collegati siano percepiti come un insieme indefinito di benefit.

 

In conclusione è bene ricordare che le politiche di welfare devono essere adattate ai propri valori e obiettivi. Per quanto nobile sia, infatti, l’attuazione del community welfare, non sarebbe valorizzato in un’impresa con scopi differenti. È utile pertanto ribadire l’utilità, da parte delle aziende, di un’analisi preventiva dei propri valori e obiettivi per scegliere le politiche di welfare più adatte e ridurre il rischio di un improvviso – e complicato – cambio di rotta.

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