Welfare, chi ben comincia è a metà dell’opera

Welfare, chi ben comincia è a metà dell’opera

Miglior clima nell’organizzazione. Risparmi fiscali (per aziende e dipendenti). Maggior potere d’acquisto… Implementare un piano di benessere porta molti benefici. A patto che sia ben strutturato.

 

È innegabile, ormai, che un piano di welfare ben strutturato porti importanti e significativi benefici all’interno dell’azienda che lo applica. E non si parla solo in termini economici: oltre a un risparmio per le imprese, per via della detassazione su beni e servizi, e a un maggiore potere d’acquisto per i dipendenti, che possono accedervi a prezzi agevolati, bisogna citare anche i vantaggi in termini di miglioramento dell’ambiente lavorativo.

 

Un welfare aziendale che funziona facilita, infatti, il work-life balance, favorisce la motivazione e la soddisfazione dei dipendenti, diminuendo i tassi di turnover e aumenta l’engagement e la produttività dei lavoratori.

 

Ma come si struttura un ‘buon’ piano di welfare ben organizzato? “La gestione end to end del ciclo del welfare prevede una serie di passaggi articolati in cui i dipendenti possono essere più o meno coinvolti: dall’analisi dei fabbisogni alla scelta dei servizi, dall’introduzione delle politiche di welfare alla gestione del budget dei servizi, dalla user experience alla rendicontazione del flusso amministrativo paghe. Si tratta di un processo formato quindi da diverse fasi”, spiega Pietro Spreafico, Co-founder di Timeswapp, startup del gruppo Inaz che sviluppa tecnologie innovative a supporto di welfare, Smart working e Corporate Social Responsibility (CSR).

 

Dall’ascolto alla gestione e monitoraggio

 

La cosa più sbagliata sarebbe infatti “comprare a scatola chiusa un software che gestisca il welfare aziendale, senza fare un’analisi accurata della situazione dei lavoratori presenti in azienda”. Bisogna, infatti, partire dall’ascolto delle persone. “Serve porre semplici domande, sottoponendo ai lavoratori focus group e questionari”. È da questa fase che emergono i veri bisogni.

 

“Non si ha idea di quante famiglie abbiano problemi di prestiti personali, quindi un rimborso degli interessi passivi da parte dell’azienda potrebbe davvero fare la differenza. Bisogna far passare il messaggio che non si tratta di comprare cose in più, ma di farsi pagare spese che si stanno già sostenendo”, è la tesi di Spreafico.

 

Dopo la prima parte di analisi, sulla base dei bisogni riscontrati si costruisce il piano di welfare. “Questa è la seconda fase, quella della progettazione”, spiega Spreafico. “A seconda dei servizi più richiesti, si contrattualizzano e si stringono accordi con i fornitori per l’erogazione dei servizi stessi e si condivide il piano con le RSU e i lavoratori. Poi, si imposta un setup di reportistica e monitoraggio”.

 

Si arriva quindi alla fase dell’implementazione, dove si attiva la piattaforma tecnologica, necessaria al dipendente per aiutarlo a spendere al meglio il proprio credito. “In questa fase partono anche i piani di comunicazione, di Change management e di formazione”.

 

L’ultima fase è quella chiamata “gestione e monitoraggio”, dove si danno risposte alle domande del dipendente e lo si supporta nelle sue scelte tramite un help desk attivo ed efficiente. “Questo perché il meccanismo di comprensione e accettazione del welfare non è mai immediato”, continua il manager. “Ci sono aziende nelle quali questi sistemi partono subito bene, ma altre dove si fa molta fatica”.

 

Abbattere le barriere che frenano il cambiamento

 

Secondo Spreafico è un tema di rapporto tra datore di lavoro e parte sindacale: “Un ambiente sereno e trasparente favorisce certamente l’introduzione di questi piani. Spesso, però, la prima reazione del lavoratore è di volere i soldi, anche se tassati, magari perché c’è un clima generalizzato di sfiducia. Ecco perché la presenza di un partner terzo potrebbe fare molto; è una figura super partes che tranquillizza le persone, guadagnandosi la loro fiducia”.

 

Questo è un “problema culturale tipicamente italiano, perché, per esempio, nel mondo anglosassone questi meccanismi sono già molto consolidati e presenti da parecchi anni”: “Il tessuto territoriale italiano, però, è costituito da aziende medio piccole, dove c’è meno spazio storicamente per queste politiche. Ma non bisogna arrendersi. Sicuramente la strada giusta è accompagnare i lavoratori non solo sotto il profilo monetario e allo stesso tempo aiutare i datori a portare queste politiche all’interno dell’azienda, soprattutto dal punto di vista sanitario e previdenziale, dove oggi lo stato ha più difficoltà a investire dei soldi”.

 

E proprio questo è, per Spreafico, il primum movens del welfare aziendale: “Lo spirito della normativa, per la nostra personale interpretazione, è il principio di sussidiarietà. Lo Stato può arrivare fino a un certo punto, dopodiché decide di delegare alcuni compiti inventandosi strumenti che, grazie alla defiscalizzazione, aiutino le aziende promotrici di queste politiche. Così partono piani e iniziative di welfare, che, se portati avanti con i giusti strumenti e il giusto commitment dell’azienda, possono diventare leve non solo di risparmio, ma di benessere e soddisfazione generale del lavoratore”.

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