Il welfare delle Acli: dalla dimensione confessionale a quella comunitaria

Il welfare delle Acli: dalla dimensione confessionale a quella comunitaria

I grandi Enti di Terzo Settore stanno vivendo un’importante riforma legislativa e sono chiamati a confrontarsi con cambiamenti sociali, economici, tecnologici. Abbiamo chiesto al Presidente nazionale delle Acli, Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, come il welfare “confessionale” possa evolversi per stare al passo con il “secondo welfare”.

 

 

Anche per il welfare è tempo di cambiare, insieme alla società. Il cosiddetto ‘secondo welfare’ incarna un modello in cui diversi attori privati concorrono al benessere collettivo al fianco – e quasi al pari – del Welfare State. Ciò impone di allargare l’orizzonte, indirizzando l’attenzione anche a quegli attori del privato sociale che, tramite la propria azione, integrano le risorse pubbliche.

 

Gli investimenti privati in termini di servizi, per le fasce più deboli della popolazione, ma anche per l’intera collettività, superano gli schemi del cosiddetto ‘primo welfare’, integrandone le lacune e intervenendo dove c’è più bisogno, in un’ottica di redistribuzione del reddito. Sperimentando nuovi modelli organizzativi e gestionali pressoché impossibili in una dimensione pubblica.

 

Tradizionalmente, il welfare di tipo caritativo, che si limitava a sostenere le persone in difficoltà tramite erogazione di beni e servizi, era il modello più adottato dagli enti ecclesiastici e dalle emanazioni della Chiesa, convinte che il proprio compito si esaurisse nel sostegno immediato e materiale al bisognoso. Questo modello non è più sostenibile. Oggi anche il welfare caritativo più basilare deve diventare di tipo generativo, ovvero deve produrre ricadute che vadano oltre la mera elargizione di un pasto, di un abito, di una somma di denaro.

 

Lo sanno bene le Acli, Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani. Con quasi un milione di iscritti, sono tra i più grossi Enti di Terzo Settore italiani (ma anche internazionali, visto che contano sedi in tutto il mondo). Hanno compiuto 75 anni, ma non li dimostrano. Il segreto? Sapersi rinnovare di pari passo coi mutamenti sociali.

 

Lo racconta a Tuttowelfare.info il Presidente Roberto Rossini, che è anche Portavoce dell’Alleanza contro la povertà. Più che di welfare confessionale, Rossini preferisce parlare di “welfare comunitario”. Oggi, infatti, gli Enti storicamente considerati ‘confessionali’ – come le Acli e la Caritas, per citare i più noti – hanno assunto una dimensione che, pur non rinnegando l’ispirazione cattolica, va oltre caritativa per costruire percorsi strutturati, che si integrino, in ottica sussidiaria e complementare, con quelli pubblici.

 

Storia e sussidiarietà

 

Le Acli si considerano un po’ “l’anello di congiunzione tra welfare comunitario e confessionale”: d’altra parte, ricorda Rossini, “secondo Papa Paolo VI la stessa Caritas non doveva esplicitamente dedicarsi alla mera erogazione, ma doveva costruire una pedagogia della carità”. Lo sforzo quotidiano che compiono Enti come le Acli è, dunque, quello di andare oltre le etichette, oltre il peso della propria storia, per agire in un’ottica di pluralismo che ben si integri con l’offerta dello Stato sociale.

 

Non a caso è nella Dottrina Sociale della Chiesa che si incontra il termine “sussidiarietà” per indicare quella complementarità non subalterna, ma alla pari, che riveste il Terzo Settore: 75 anni di storia senz’altro hanno un peso, ma il fatto di avere resistito a tutti i cambiamenti sociali, economici, del mondo del lavoro (carisma principale delle Acli) indica che, al di là del welfare più tradizionale, l’Associazione è stata in grado di costruire un pensiero alla base dell’azione. È quello che il Presidente definisce “agire pensato”.

 

Le Acli continuano a fare carità, ma allo stesso tempo hanno un ufficio studi, erogano servizi per i cittadini, si interrogano, fanno ricerca, creano e sperimentano modelli, cercano le ragioni delle diseguaglianze, interloquiscono con le Istituzioni. Non si limitano a voler sopperire alle mancanze dei cittadini nell’immediato, ma cercano di far sì che queste non esistano più. Il segreto della longevità delle Acli, secondo Rossini, sta proprio nel non aver mai dissociato il welfare di tipo caritativo dalla componente di pensiero.

 

Pratiche di nesting per generare futuro

 

In particolare, il welfare messo in atto dalle Acli si riconosce nell’espressione “pratiche di nesting”. Si tratta di costruire “incastri” generativi non solo tra il primo e il secondo welfare, ma anche tra settori (Stato, Mercato, Terzo Settore), tra competenze e tra territori: “nodi” virtuosi che si confrontano tra due logiche opposte, quella integrativa e quella sostitutiva. Questo secondo welfare può essere efficace se non mira a sostituire il servizio pubblico con il privato, moltiplicando e frammentando l’esistente, ma solo se è capace di integrarlo, sostenerlo, supportarlo. Il vantaggio del privato sociale?

 

“Senza dubbio è più flessibile, può permettersi di sperimentare, di migliorare l’esistente dando voce ai cittadini, rispondendo alle loro esigenze”, spiega Rossini. Enti come le Acli si definiscono, non a caso, “corpi intermedi”, che si pongono come tramite fra il cittadino e le Istituzioni. Questa posizione privilegiata consente loro di cogliere subito i cambiamenti sociali in corso e di pensare a soluzioni praticabili in anticipo rispetto allo Stato e in ottica differente dal mercato.

 

Una crescente interazione tra i vertici del welfare non può che aumentare il benessere complessivo: le Associazioni hanno un ruolo fondamentale nel rendere sempre più protagonisti i beneficiari, trasformandoli da soggetti passivi delle erogazioni a soggetti attivi del processo di rinnovamento e di uscita dallo stato di bisogno, fine ultimo di ogni azione di welfare.

 

Il welfare aziendale come sfida (anche) per le Associazioni

 

Una delle principali novità del secondo welfare è la componente aziendale. Secondo Rossini, la sua diffusione geografica offre una fotografia di come le diseguaglianze Nord-Sud persistano ancora nel nostro Paese: il welfare aziendale è, infatti, molto più diffuso nelle regioni industrializzate e benestanti. Il ruolo di Associazioni come le Acli, che si occupano di lavoro e di lavoratori, potrebbe essere quello di favorire una cultura del welfare aziendale che non lo releghi a una voce di costo, ma aiuti le aziende a concepirlo come un investimento.

 

Porre i lavoratori in condizioni economiche e sociali più positive significa sgravare di costi il welfare locale: il vantaggio è per tutti, anche per le aziende stesse, senza contare i benefici in termini di produttività ed engagement da parte del personale. Le Acli stesse sono una grande azienda, seppure no profit, visto che il sistema conta diverse migliaia di dipendenti. Le buone pratiche “suggerite” alle aziende, dunque, si sperimentano anche all’interno dell’Associazione, dove, ad esempio, è molto diffuso lo Smart working.

 

Non solo: varie soluzioni in ottica di conciliazione dei tempi di lavoro e di vita – dal maggiordomo aziendale alla stireria, dai gruppi di acquisto sino ai centri estivi – si sperimentano con progetti appositi in tante sedi provinciali. Ovviamente, l’attenzione dell’Associazione non è rivolta tanto alle scelte economiche, quanto al benessere dei lavoratori: sono scelte morali, prima che finanziarie. A dimostrazione del fatto che si può predicare bene, razzolando altrettanto bene.

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