Dai servizi tradizionali all’innovazione: le sfumature del welfare

Dai servizi tradizionali all’innovazione: le sfumature del welfare

A seconda del settore aziendale, cambia l’approccio allo strumento. Che sia on top, previsto dai contratti collettivi o conversione del premio di risultato, le parole chiave sono: condivisione, reciprocità dei benefici e concretezza.

 

Mentre nelle aziende più grandi si fa strada la figura del welfare manager, nella stragrande maggioranza delle imprese la gestione del welfare aziendale è ancora delegata all’HR manager (se non al Direttore del Personale) o, addirittura, non è raro che resti in mano all’imprenditore.

 

Intanto che si definiscono i ruoli più operativi, però, il welfare aziendale prende sempre più piede. La modalità di introduzione più diffusa, secondo i dati disponibili, resta quella on top, perché più libera da vincoli; tuttavia si è assistito alla moltiplicazione dei contratti collettivi nazionali che prevedono un budget per il welfare, segno di una responsabilizzazione in questa direzione di tutte le parti sociali.

 

Secondo i dati a nostra disposizione, appare, però, un approccio differente al welfare, a seconda del settore aziendale. A restare immutate sono le parole chiave, che rimangono sempre le stesse: condivisione, reciprocità dei benefici e concretezza.

 

Servizi legati agli ambiti tradizionali

 

Per esempio, Aster e Utilitalia hanno condotto un’indagine sul comportamento delle imprese che operano nel campo delle utility, a livello di benessere organizzativo. Il campione non ha la pretesa di essere esaustivo, ma si tratta, comunque, di 300 aziende, per il 66% piccole e medie, che offrono servizi idrici, ambientali e civici.

 

È emerso che il 90% di esse ha introdotto il welfare legato al Premio di risultato: il 53% dei premi, in base al loro valore, possono essere totalmente detassati (la parte restante supera il valore consentito dalla legge per gli sgravi); il 33% di chi ha diritto al welfare preferisce convertire il pdr proprio in beni o servizi di welfare.

 

In questo caso, i servizi di welfare più usati sono anche quelli più tradizionali, come i buoni pasto: si tratta di aziende medio-piccole, ma, soprattutto, con una lunga storia alle spalle, fattore che le rende refrattarie al cambiamento.

 

Nel settore non fa eccezione Hera, uno dei player più grandi, che dal 2016 ha introdotto il programma di welfare Hextra, modificando di fatto la cultura aziendale. Il welfare è nato nella versione on top: ogni dipendente, in base a esso, dispone di un portafoglio flessibile (è uguale per tutti), cui si possono collegare altri supporti. Infatti, da una indagine preventiva era emerso che il primo pensiero dei dipendenti riguardava le esigenze familiari.

 

Così, molto tradizionalmente, i servizi più richiesti sono quelli previdenziali, assicurativi, sanitari, con un occhio di riguardo all’istruzione dei figli. Di recente è stata aggiunta la possibilità di convertire il premio aziendale in welfare: a oggi il 91% dei dipendenti lo usa, a seguito di una capillare attività di comunicazione. Costituisce attrattiva per i talenti e viene percepito come un importante strumento di condivisione aziendale.

 

Promuovere la mobilità sostenibile

 

All’opposto, ci sono imprese che scelgono, per i propri piani di welfare, di essere particolarmente attente ai cambiamenti che avvengono attorno a loro. È il caso di quelle che scelgono provider di welfare come Jojob, primo servizio in Italia a offrire uno strumento di welfare aziendale incentrato sulla mobilità sostenibile.

 

Questa idea, non nuova in assoluto, lo è nella sua applicazione nell’ambito del benessere aziendale. L’App permette ai dipendenti di condividere il tragitto casa-lavoro in maniera non solo utile in fatto di comodità, puntualità, conciliazione dei tempi di lavoro e vita, ma anche vantaggiosa: consente ai fruitori un risparmio complessivo di 420 tonnellate di anidride carbonica e, in termini economici, di 74.281 euro.

 

Lo sguardo va all’ambiente (tema del momento), ma anche ai rapporti tra colleghi, che fanno spontanee esperienze di team building durante il tragitto da e per il luogo di lavoro. Ne beneficiano, dunque, le relazioni, diminuisce lo stress dovuto al viaggio, con un’attenzione alla salute per chi sceglie di muoversi con le biciclette messe a disposizione.

 

La palestra ‘entra’ in azienda

 

Anche idee di welfare più tradizionali possono essere rese innovative. Il focus resta sulla condivisione di tempi e spazi, accostato alla flessibilità. L’idea di Fit Prime, azienda nata nel 2018, è quella di offrire alle imprese, per i loro pacchetti di welfare, non il classico abbonamento alla palestra, ma un percorso-salute, fatto di aspetti digital e on demand, accanto alla vera e propria pratica sportiva.

 

Lo stimolo viene dalla constatazione che, spesso, l’offerta di tipo ‘salutista’ prevista dalle piattaforme di welfare non veniva presa in considerazione. Interpellati i dipendenti, è emerso come risultasse per loro difficile, in termini di conciliazione dei tempi di lavoro e vita, frequentare una palestra.

 

È stato così che Fit Prime ha pensato di ‘portare’ la palestra in azienda, offrendo lezioni in ufficio e permettendo, con un unico abbonamento, di frequentare tutte le palestre del circuito, proponendo consulenze sulla nutrizione e il benessere fisico in generale.

 

Si è verificato subito un notevole aumento delle richieste per questo pacchetto di welfare. E il welfare aziendale è testato direttamente anche in Fit Prime: l’organizzazione ha adottato, per esempio, un orario di entrata flessibile, che non pone limiti.

 

Ma c’è un incentivo ad arrivare comunque presto: la colazione. Viene offerta gratis ogni mattina a chi arriva entro un certo limite di tempo. Questo stimola un comportamento virtuoso, senza però dare limitazioni rigide. Il lavoro diviene così davvero flessibile, lavorando per obiettivi, mettendo al centro la persona come ‘collante’ aziendale e rendendo il posto di lavoro un luogo prima di tutto di condivisione e solo secondariamente di vera a propria attività lavorativa.

 

Per essere Smart (working) serve lavorare sui manager

 

Tra i temi di welfare c’è poi lo Smart working, che richiede una gestione attenta. È il caso di PageGroup, che ha dovuto gestire processi impegnativi di digitalizzazione, per sé e per i clienti. Infatti, capita che, durante i colloqui di lavoro, ma anche nei primi mesi di attività, si osservino lavoratori in difficoltà con operazioni banali come scaricare un’App o aggiornare un software.

 

Da questa osservazione è stato intuitivo capire che il peso della trasformazione digitale sarebbe ricaduto, in larga parte, sugli HR manager. Prepararli al cambiamento, da parte dei formatori, non è (stato) facile: il cambiamento in atto è in primo luogo culturale. Flexibility, home office, Smart working… accettare le nuove modalità di lavoro ha, in apparenza, più rischi che benefici sulle performance e dà ai manager, talvolta, una forte sensazione di mancato controllo.

 

Una volta allineati i manager sui concetti, la soluzione di PageGroup è stata proporre un cambiamento radicale. Nessuna via di mezzo, che apre la strada a fraintendimenti, ma un cambiamento del 100% subito per tutta la popolazione aziendale. All’inizio non è stato semplice: nel momento in cui le persone sono state libere di organizzare la propria giornata, individuando in autonomia i momenti migliori per svolgere le attività, si sono verificati anche degli ‘eccessi’.

 

È capitato, per esempio, che i più giovani chiudessero contratti o facessero progetti direttamente dalla spiaggia, comportando problemi a livello di privacy e di autorevolezza con i clienti. Casi estremi a parte, in generale i risultati ottenuti sono stati ottimi. Si è raggiunto un aumento della performance, una diminuzione del tasso di turnover grazie a un maggiore engagement e una maggiore efficacia della formazione fatta a distanza. Gli stessi clienti hanno riconosciuto il valore qualitativo dei colloqui via etere e del mobile learning.

 

D’altra parte, anche le aziende devono adeguarsi alle richieste e agli interessi dei Millennial e delle successive generazioni, per non perdere talenti. Infatti, una delle domande cruciali per il cambiamento è: cosa guardano i giovani e i giovanissimi nella scelta di un’azienda e per rimanerle fedeli?

 

La risposta non è banale: non considerano solo il brand e la job description, ma anche le possibilità formative offerte, le attività di charity, la flessibilità e il welfare aziendale, la condivisione. Ecco perché in azienda il tema generazionale è un tema sensibile e, per non far fuggire giovani talenti, occorre che le imprese imparino il loro linguaggio.

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