Il welfare secondo le giovani generazioni

Il welfare secondo le giovani generazioni

No buoni e convenzioni ma più work life balance e formazione. Questo il welfare aziendale secondo i Millennials e la generazione Z. Alle aziende non resta che prenderne atto e rivedere la loro organizzazione e i servizi da inserire nei loro piani benessere. Ecco perché.

 

Ai benefit economici preferiscono il tempo e una buona qualità della vita sul posto di lavoro. Il loro obiettivo è stare bene, sia dentro l’ufficio sia fuori, poter bilanciare nel migliore dei modi impegni professionali e vita privata, avere la possibilità di crescere e proseguire la propria formazione. E’ questo il welfare secondo i millenials, ovvero i giovani fra 18 e 35 anni.  A dirlo una ricerca condotta da Jointly-Welfare condiviso, su un campione internazionale di circa 3.200 dipendenti di oltre dieci aziende. Così gli under 35 sono più interessati e propensi all’utilizzo delle diverse iniziative di welfare rispetto ai colleghi di altre fasce d’età, tanto che più del 50% sfrutta almeno due servizi messi a disposizione delle imprese. Le priorità sono però completamente diverse. Per loro welfare non è sinonimo di voucher e convenzioni, ma viene associato al work-life balance: più tempo di qualità da dedicare a se stessi, alla propria crescita e formazione personale, al proprio benessere psico-fisico e relazionale. Siamo insomma di fronte a una vera e propria rivoluzione culturale, che impone alle aziende di ripensare le proposte in tema di welfare. Anche perché la stessa ricerca ha evidenziato quanto proprio questa idea di benessere rappresenti per i più giovani una leva fondamentale di employee engagement: quanto maggiore è l’utilizzo e la soddisfazione per le iniziative di cui si è fruito, tanto più aumenta il senso di identificazione con la propria realtà professionale.
«Nelle precedenti generazioni il bilanciamento vita/lavoro era più semplice da mantenere, perchè i tempi sociali erano scanditi meccanicamente, quasi ritualmente. Oggi il lavoro è delocalizzato, pluri-localizzato, flessibile ma anche invasivo, intrusivo. Le nuove tecnologie, così come la Rete e i social network, hanno amplificato questa svolta epocale»,  spiega Cristina Pasqualini, sociologa dell’università Cattolica di Milano. «Così è venuto a mancare un sano equilibrio. Il tempo del lavoro si mangia il tempo della vita, il tempo per se stessi, per fare altro. Se questo è il trend, le giovani generazioni hanno il compito di rimettere dei paletti, di ridare identità, forma e sostanza a tempi diversi».

 

Meno soldi, più partecipazione

 

Ma non sono solo i cosiddetti Millanials a cambiare le regole. Esigenze simili sono avvertite anche dalla cosiddetta generazione Z, cioè dai ragazzi in procinto di completare gli studi. «Per tutti questi giovani il lavoro è ancora molto lontano e quindi non rappresenta una preoccupazione immediata. In generale però anche per loro deve idealmente consentire di esprimersi, di essere creativi, di viaggiare, di continuare a imparare», prosegue la ricercatrice. «A una visione della professione totalmente strumentale, i ragazzi preferiscono uno stipendio ridimensionato ma uno stile lavorativo più espressivo, più umano, ma anche più collettivo e partecipato. Ecco perché apprezzano molto lo smart working, così come il lavorare con gli altri in spazi nuovi e innovativi, come i coworking».

 

Le aziende devono imparare a guardare e gestire i dipendenti come persone

 

Alla luce di queste tendenze anche le aziende sono costrette a cambiare passo. «Alle imprese spetta di imparare a guardare alle proprie risorse umane come persone intere, che non funzionano a compartimenti stagni, ovvero a interessi distinti o perfino contrapposti. Lavoro, famiglia e interessi personali vanno considerati come mondi vitali, tutti importanti per la realizzazione della persona», conferma Rosangela Lodigiani, docente di Sociologia del lavoro nello stesso ateneo lombardo. «D’altro canto, come ci insegnano le ricerche sul lavoro, in percorsi professionali che si sviluppano in modo meno lineare di un tempo, alternando cambi di mansioni e passaggi tra occupazione e disoccupazione, i confini tra carriera e vita tendono a farsi meno netti». Una situazione profondamente diversa rispetto al passato, figlia anche della crisi economica. «Le giovani generazioni hanno dovuto imparare ad abitare questa epoca, se la sono fatta piacere in un primo tempo, fino ad arrivare ad amarla profondamente», va avanti Pasqualini. Se da un lato la sharing economy ha portato i giovani a considerare la condivisione più importante del possesso, è anche vero che per molti è possibile solo condividere. I ragazzi oggi possono avere un’auto senza acquistarla, possono viaggiare low cost con altri e dividere le spese. Inoltre non tutto è economia, la stessa condivisione può avvenire al di fuori di questa logica. E i giovani, per necessità e per virtù, sono i primi in cammino per questa nuova strada, che molto probabilmente è la strada migliore possibile per tutti». Almeno per il momento questa tendenza sembra inarrestabile. «Non possiamo dire con certezza se questo trend caratterizzerà anche il prossimo futuro. Ma forse dovremmo augurarcelo», conclude l’esperta. «Questo fenomeno si ispira a valori positivi e importanti come la sostenibilità, la collaborazione, la condivisione, la gratuità e la solidarietà. Valori che secondo il sociologo Edgar Morin sono la premessa di un nuovo umanesimo planetario. Non ci resta che camminare sulla strada intrapresa, dai giovani in primis. Come sempre sono loro che innovano».

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