Il ritorno del welfare aziendale e l’impatto sull’organizzazione
Come si valuta il piano di benessere di un’impresa? Ne abbiamo parlato con Mattia Martini ripercorrendo l’esperienza di WBR Lab, per approfondire l’impatto che ha sulle organizzazioni e l’efficacia delle iniziative proposte dalle aziende.
Perché si parla di “ritorno” del welfare? Niente paura, perché il welfare aziendale non era mai sparito. Anzi, è il grande protagonista dei nostri tempi. Il ritorno di cui parliamo è quello del valore, che non è facilmente quantificabile.
Il ritorno del welfare aziendale è stato il tema al centro della terza puntata di Tuttowelfare – Il welfare dalla A alla W! Live. Partendo dall’esperienza maturata nell’ambito di WBR Lab, Laboratorio di ricerca per la misurazione dei ritorni di valore del welfare aziendale, la redazione di Tuttowelfare.info ha dialogato con Mattia Martini, Ricercatore dell’Università degli Studi Milano-Bicocca e membro del Comitato Scientifico del nostro giornale online, per discutere dell’impatto del welfare aziendale sull’organizzazione e delle condizioni di efficacia di queste iniziative.
Martini ci ha raccontato gli esiti di un importante studio sul tema, la prima parte del quale si è svolto nel 2018 e ha coinvolto un po’ tutti gli attori del welfare, dalle università alle aziende, dai dipendenti alla società di consulenza Valore Welfare. Sì, perché, prima di tutto, il welfare non è qualcosa di statico e circoscritto, ma nasce da una concertazione di più soggetti.
Proprio per questo, il WBR Lab ha messo attorno al tavolo un panel di aziende, consulenti, accademici per provare a ragionare sulla misurazione dell’impatto ‘lato azienda’, con un approccio concreto e non puramente teorico.
Il fattore economico non è la leva principale
È emerso che sono diverse le leve che concorrono a far sì che un’azienda ricorra al welfare. Alcune ce l’hanno nel proprio Dna. È il caso delle banche, come Bper, che ha partecipato attivamente al laboratorio. Per queste realtà, storicamente attente al benessere dei lavoratori, si tratta solo di istituzionalizzare qualcosa che offrono da sempre.
Poi ci sono le aziende attirate dai benefici fiscali e altre che percepiscono da subito il potenziale strategico del welfare. Queste ultime sono, probabilmente, le più convinte e convincenti, quelle che avranno i maggiori benefici e ricadute positive sul lungo termine, perché sanno guardare al di là del mero beneficio economico: ciò fa la differenza anche nella percezione del dipendente.
Di per sé, il fattore economico non è una leva così potente come si potrebbe immaginare. Per lo più, le aziende che adottano misure di welfare percepiscono il fatto che, prendendosi cura della popolazione aziendale, si possono ottenere benefici non solo economici, ma di benessere interno e qualità del lavoro.
Resta, infatti, molto diffuso il concetto di fondo di gratuità del welfare, concepito come strumento fondamentale per dare risposta ad alcuni bisogni dei dipendenti. Le ricadute positive di medio e lungo periodo, dunque, non fanno che rafforzare questo principio: col tempo, le aziende cominciano a percepire maggiore benessere organizzativo, motivazione, engagement, ma sono comunque spinte all’adozione di un piano di welfare a prescindere da questo.
Come misurare l’impatto del welfare
Ecco perché il tema della monetizzazione dell’impatto è del tutto parziale rispetto a una sua valutazione: la leva economica rappresenta e muove solo una piccola parte dei vantaggi. Quindi, un indicatore di tipo ROI (Return on investment) non può essere esaustivo.
WBR Lab, prima di tutto, ha cercato di comprendere la catena del valore del welfare, la sua filiera, analizzandone in primis la performance, ovvero efficacia ed efficienza, tasso di conoscenza dei servizi, di utilizzo e di conversione, ammontare di convertito da parte dei dipendenti. In secondo luogo, ha indagato la soddisfazione dei dipendenti, per analizzare entrambi gli output. Sul medio e lungo termine ha poi analizzato il livello di benessere organizzativo, di engagement e di commitment.
Si è concentrato, poi, su una seconda area, un gruppo di indicatori della performance inerenti più specificatamente le risorse umane. Ha usato quattro parametri: i comportamenti dei dipendenti, l’assenteismo, la retention – attraverso i numeri del turn over volontario – e la attraction, la capacità di attirare talenti.
La terza area è stata oggetto di un’analisi di lungo periodo, che tenesse conto dei risultati aziendali in termini di produttività, di qualità dei servizi e processi interni. Questa area di valutazione investe anche la reputation, cioè la percezione esterna da parte degli stakeholder. In questo caso è davvero difficile scindere gli aspetti che derivano direttamente dall’applicazione del welfare aziendale da quelli che coinvolgono altri fattori, ma la sfida è proprio questa: comprendere fin dove si spinge, in termini di benefici, l’adozione di un piano di welfare correttamente strutturato.
Un laboratorio di concretezza
Per capirlo, il laboratorio è partito dalle esperienze dirette di otto aziende. Se, infatti, la personalizzazione del welfare sulla base delle caratteristiche delle singole aziende e dei loro dipendenti è fondamentale per costruire un buon piano di welfare, lo è altrettanto per la misurazione dell’impatto.
Soprattutto nelle aziende piccole e medie, anche le più banali raccolte di dati sul welfare, sul suo utilizzo e sulla soddisfazione dei fruitori sono decisamente carenti. Persino nelle aziende più strutturate spesso manca il monitoraggio degli indicatori base del welfare, come quello dei tassi di conversione del Premio di risultato, che sarebbe semplice raccogliere (oggi vengono in aiuto anche le varie piattaforme dei provider, cui le aziende si appoggiano per strutturare il proprio piano di welfare).
La misurazione della soddisfazione dei dipendenti, in ogni caso, è una grande assente: delle otto aziende interpellate dal laboratorio solo due avevano valutato la soddisfazione dei dipendenti e lo avevano fatto in maniera sporadica, senza una continuità nella rilevazione. Per non disperdere inutilmente risorse, bisognerebbe avere già pianificato i sistemi di monitoraggio non appena si avvia il piano di welfare.
A volte basterebbe uno sforzo davvero minimo, riorganizzando dati già in possesso dell’azienda. Pochi, ma utili. Ciò aiuterebbe a capire gli obiettivi da darsi, le tempistiche e se si sta investendo bene il proprio budget. Anche per chi adotta misure di welfare in una pura ottica di elargizione e di gratuità, vale comunque la pena spendere bene le proprie risorse.
Quanto alla reputazione, si diceva, è particolarmente complesso scindere quanto di essa sia merito (o demerito) del piano di welfare. Lo strumento individuato da WBR Lab è il metodo partecipativo: sono stati coinvolti e interpellati i dipendenti per capire meglio il contributo del welfare rispetto ad altre variabili sul loro benessere e sulle loro motivazioni.
Il metodo partecipativo
In particolare, sono state svolte sperimentazioni in Cirfood e Bper: un workshop con i dipendenti e la somministrazione di questionari, sui temi della motivazione, dell’engagement e della retention. È emerso che tra il 10 e il 30% del miglioramento su questi indicatori era attribuibile, a loro avviso, al welfare.
È chiaro che, per la valutazione dell’impatto, è importante saper passare dai risultati netti agli indicatori, comprendendo bene in quali contesti svolgere le misurazioni. Il caso della banca è emblematico: godendo da tempo di alcuni benefici di welfare, i dipendenti ne avevano perso consapevolezza. A loro è stato posto, quindi, il quesito contrario: cosa accadrebbe se perdessi questi benefici?
Il momento giusto per effettuare valutazioni, se sono mancate all’inizio, può essere quello di un cambiamento, come un investimento su una campagna di comunicazione specifica sul welfare.
Così come strutturare il piano di welfare deve essere un lavoro ‘artigianale’, cioè calato bene nell’organizzazione, altrettanto deve avvenire per la valutazione d’impatto. Anch’essa deve essere il più possibile personalizzata.
Un tema critico emerso dal lavoro del laboratorio è quello della comunicazione, interna ed esterna. Se non si conosce l’esistenza di una data cosa, è come se questa non esistesse: lo stesso vale per i benefit aziendali. Il lavoro svolto ha permesso di capire che dedicare tempo a informare, ma soprattutto a formare i dipendenti, è un ottimo investimento.
È così che Bper, ad esempio, ha deciso di dedicare una giornata di otto ore alla formazione a cui i dipendenti erano liberi di partecipare. Oltre alla mera informazione delle possibilità, è emersa l’importanza di far capire il valore delle misure di welfare adottate e l’impegno dell’azienda.
Martini ha riportato l’esempio di realtà aziendali in cui il welfare era fallimentare, forse non per mancanza di qualità, quanto per mancanza di consapevolezza da parte dei dipendenti: sono bastati un questionario e una discussione di gruppo per decidere di riprogettarlo e per far passare dal 16% al 36% e poi addirittura al 46% il tasso di conversione del Premio di risultato.
Il welfare aziendale, infatti, è molto sensibile, in positivo e in negativo: risente anche di eventuali problemi organizzativi interni legati alla comunicazione. Questo vale, in realtà, anche all’esterno: difficile attirare talenti, se questi non sono a conoscenza delle possibilità offerte dall’azienda.
Ecco perché l’idea della partecipazione sembra quella vincente, in tutte le fasi, dalla progettazione alla valutazione: un welfare partecipato è più efficace, perché più aderente alla realtà. Tra la teoria e la pratica c’è differenza, così come tra il proporre idee bellissime e saperle comunicare bene.
La partecipazione riguarda anche la “legittimazione” da parte della dirigenza, la condivisione fra manager delle diverse funzioni, la coprogettazione. Tutti elementi che sono anche garanzia di un investimento costante nel tempo.