Il welfare non è uguale per tutti
Il Rapporto sullo Stato sociale 2019 fa il punto sul welfare italiano, rivelando come la tendenza sia quella del privato di sostituirsi al pubblico. Con la conseguenza dell’allargamento della forbice della disuguaglianza.
Welfare occupazionale vs welfare pubblico. Il rapporto tra questi due tipi di welfare varia da Paese a Paese e da settore a settore, in virtù dei differenti sistemi fiscali e dei modelli esistenti. A farne un’analisi in Italia è stato il Rapporto sullo Stato sociale 2019 (giunto alla sua 13esima edizione) recentemente presentato al pubblico.
L’analisi – curata da Felice Roberto Pizzuti, Docente di Economia e Politica del Welfare State presso la facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma – svela che nel nostro Paese si va diffondendo sempre più la concessione ai lavoratori di beni e servizi sanitari, fiscalmente incentivati dalle imprese. Tale misura avviene soprattutto attraverso l’iscrizione a fondi assicurativi privati, che in parte assumono un ruolo sostitutivo del Sistema sanitario nazionale, spesso meno ‘comodo’ a causa dell’aumento delle liste d’attesa e del pagamento dei ticket crescenti.
Il modello di welfare che si va delineando in Italia, dunque, non è quello aggiuntivo tipico dei Paesi scandinavi, bensì quello in cui il privato si va a sostituire alle prestazioni sociali pubbliche. Il rischio è quello di una doppia redistribuzione negativa: da una parte la sostituzione del salario monetario con servizi di welfare riduce sia le pensioni sia il Tfr; dall’altra un sistema di questo tipo rischia di gravare sulla fiscalità generale portando benefici a pochi, ovvero a coloro che lavorano per grandi aziende e che più facilmente hanno accesso a questo tipo di misure.
Secondo le stime elaborate si tratta di circa 2,5 milioni di lavoratori beneficiari; un numero ancora poco influente, che rischia di allargare ancora di più la forbice della disuguaglianza.
Non per nulla, addirittura il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha di recente lanciato un monito spiegando che “lo stato sociale è stato, in questi anni, sottoposto a continue tensioni” e per questo è “necessario evitare che i profondi cambiamenti che hanno investito la nostra struttura sociale ed economica si trasformino in esclusione ed emarginazione”.
Verso l’integrazione tra welfare pubblico e occupazionale
Il Rapporto sullo Stato sociale 2019 è dunque l’occasione per fare il punto della situazione sulle problematiche, le carenze e le evoluzioni del Welfare State italiano, anche mettendolo a paragone con gli altri Paesi dell’Unione europea, e per approfondire i vari aspetti del welfare occupazionale, spesso chiamato in causa a sostegno delle politiche previdenziali e sanitarie, ma anche dei programmi di formazione e della conciliazione vita-lavoro.
L’indagine è anche un’opportunità per accendere una luce sul welfare aziendale, sulla sua diffusione in Italia e sulle disuguaglianze nell’accesso a beni e servizi e nelle dinamiche salariali.
Per esempio, a proposito di confronti con altri Paesi, nell’area Ocse è emersa sempre più forte la tendenza a un’integrazione del welfare pubblico con quello occupazionale: quelli dove la spesa per il welfare occupazionale incide maggiormente in rapporto al Pil sono l’Olanda (7%), Stati Uniti (6,7%) e Regno Unito (5,3%); nel nostro Paese il dato è dello 0,9%, ma tra il 1990 e il 2015 si è registrata una crescita significativa dell’investimento in tutti i Paesi (+500% in Spagna; +300% in Svezia; +85% in Italia).
Il mondo del lavoro è dunque al centro della discussione, per indagare le nuove dinamiche scaturite dal reddito di cittadinanza e per approfondire il discorso relativo al sistema pensionistico italiano. Ancor prima, però, c’è l’istruzione, vero motore dello sviluppo un Paese.
Gli studi indicano che l’accesso libero al sistema scolastico è il modo più efficace per accedere al lavoro e dunque contrastare il fenomeno della povertà: secondo i dati Istat nel 2017, oltre 5 milioni di individui vivevano in condizioni di povertà assoluta (+0,6% rispetto all’anno precedente). Questa condizione si riflette appunto sullo studio: l’Italia è il penultimo Paese dell’Ue per numero di laureati (26,2% contro il 39,1% della media europea, dati Eurostat).
Anche il tasso di occupazione a tre anni dalla laurea resta ben distante dal resto dell’Europa (62% contro l’84%, dati Almalaurea) e questo apre una riflessione sulla necessità di trasferire agli studenti delle nozioni che siano ben spendibili nel mondo professionale e sulla necessità di allargare le basi sociali per rendere gli studi più accessibili a tutti.