Metti il dipendente nel Cda

Metti il dipendente nel Cda

Il nuovo accordo di welfare aziendale della Manfrotto di Feltre e Cassola prevede che uno dei 350 dipendenti sieda nel Cda. Uno dei pochi casi di cogestione in Italia, nonostante la normativa lo preveda da anni, che diventa un esempio da seguire. A beneficiarne la produttività.

 

Non solo un maggiore contributo da parte dell’azienda per chi aderisce ai fondi pensionistici integrativi, lo smart working per le mamme con figli piccoli e anziani da curare o la possibilità di donare i propri permessi ai colleghi. Nell’accordo di welfare aziendale appena firmato alla Manfrotto di Feltre e Cassola, realtà del Vicentino all’avanguardia nella produzione di accessori per l’audiovisivo, c’è un pezzo che potrebbe rivoluzionare le relazioni industriali: uno dei 350 dipendenti entrerà in consiglio di amministrazione.

L’Italia è all’anno zero nelle forme di cogestione. Sicuramente lontanissima da quello che avviene in Europa, dove la media di rappresentanti dei lavoratori negli organismi di gestione e di controllo si attesta su circa un terzo totale dei consiglieri di amministrazione o sorveglianza. In Germania e in Danimarca vengono nominati direttamente dagli stessi lavoratori, in Svezia vengono scelti nelle imprese, mentre in Francia sono cooptati direttamente dagli azionisti.

Secondo uno studio svedese, la partecipazione alla governance garantisce un aumento della produttività tra il 20 e il 30%, mentre nella locomotiva d’Europa, la già citata Germania, i lavoratori presenti nei consigli di sorveglianza hanno permesso il buon esito di draconiane ristrutturazioni, come quelle registrate negli anni scorsi in Volkswagen o in Siemens. Turnaround che hanno permesso a queste aziende di diventare dei colossi mondiali nei loro rispettivi settori.

 

Pochi i casi in Italia nonostante esista la normativa

 

Questo avviene oltre i nostri confini. Perché in Italia i casi di partecipazione si contano sulle dita delle mani, nonostante non manchino leggi o accordi tra le parti sociali (come l’ultimo “Patto per la fabbrica” firmato da Confindustria e sindacati confederali), che spingano in questa direzione. La legge 208 del 2015, per esempio, stabilisce che «il coinvolgimento paritetico dei lavoratori» deve avvenire attraverso schemi organizzativi e piani per l’innovazione, che garantiscano non soltanto maggiore produttività, ma soprattutto un miglioramento della qualità di vita e di lavoro dei dipendenti. L’Agenzia delle entrate, con la circolare 28/E del 2016, ha stabilito che in questo caso la base minima del premio industriale sale da 3 mila a 4 mila euro.

Ma le esperienze concrete sono molte rare. Tra le poche case history c’è quella della Rai, la più grande azienda culturale del Paese. Qui uno dei sette membri del consiglio d’amministrazione è un dipendente di viale Mazzini, eletto direttamente dai colleghi con un’apposita consultazione.

Parteciperà alla governance un lavoratore anche all’Alcoa di Porto Vesme, in Sardegna, ripartita dopo l’acquisizione da parte di Sider Alloy. Lo prevedono gli accordi stretti lo scorso aprile tra l’ex ministro dello Sviluppo Carlo Calenda e i nuovi proprietari. «Sarà il primo caso», ha raccontato l’ex titolare del Mise «in cui i lavoratori partecipano alla gestione dell’azienda e se lo sono ampiamente meritato. Abbiamo studiato con il professor Nuzzo della Luiss lo statuto di un’associazione dei lavoratori che avrebbe il 5 per cento della nuova società ed un posto nel comitato di sorveglianza».

 

Quando la storia insegna

 

Nonostante queste sparute esperienze, in Italia il primo caso di cogestione risale al 1945 alle acciaierie di Terni. Nel dopoguerra l’Iri, i vertici della “Terni” e i confederali decisero di creare un consiglio di sorveglianza, per affrontare «tutti i problemi tecnici ed amministrativi relativi alla gestione dell’azienda con una commissione aziendale composta di cinque membri eletti mediante voto segreto e diretto delle rispettive categorie e cioè tre delegati degli operai, uno degli impiegati e uno dei dirigenti, esclusi i direttori generali». Ma ancora più importante in Italia è stato il fenomeno dei “workers buyout”, introdotto nel nostro Paese nel 1985 con la legge Marcora.

La normativa permette che i dipendenti delle aziende in crisi ne possano prendere le redini, ripartendo sgravati dai debiti, ma accollandosi sia tutte le responsabilità di gestione sia i costi d’investimento. Il bilancio della Marcora parla di 1.200 posti e oltre 300 aziende salvati, per non parlare dei milioni di euro risparmiati dallo Stato in termini di ammortizzatori sociali. Tra i casi più famosi Greslab, realtà con 68 operai nella ceramica nata a Scandiano sulle ceneri della Ceramica Magica o in Lombardia la Ri-Maflow di Trezzano sul Naviglio, gioiello nel riciclo di strumentazioni elettroniche risorta nel 2013 dopo che l’anno prima il Tribunale ne aveva sancito il fallimento.

 

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