No ai lavoratori di Serie A e B

No ai lavoratori di Serie A e B

Il Terzo settore potrebbe fare molto per sviluppare il welfare aziendale nelle Pmi ed evitare che si trasformi in un ulteriore fattore di diseguaglianza sociale tra i cittadini. Ma la strada da fare è ancora lunga.

Il welfare aziendale può essere una grande opportunità di crescita per il terzo settore, ma se non verrà colta si trasformerà in un ulteriore fattore di diseguaglianza sociale. Ne è convinto Alessandro Venturi, docente di Diritto regionale e degli enti locali nell’ateneo di Pavia. «L’affermazione del welfare aziendale porta con sé un grande rischio che è quello di settorializzare la tipologia di risposta ai bisogni emergenti», dice l’esperto. In altre parole i lavoratori assunti avranno «un servizio di welfare completo garantito dal datore di lavoro e offerto dal privato, mentre sul pubblico si appiattiranno l’offerta e la domanda di servizi per le fasce di popolazione più deboli e meno garantite. E il settore pubblico non se lo può più permettere», avverte Venturi.

Estremizzando le cose è quello che, secondo il professore, già succede in Germania con il “modello assicurativo e mutualistico” o negli Usa. L’Italia, però, ha un vantaggio rappresentato dalla consolidata presenza di realtà no- profit, soggetti territoriali che hanno una vocazione storica a prendersi carico delle persone più deboli ed emarginate dal contesto produttivo e quindi dal lavoro. Se queste realtà si organizzassero per offrire servizi di welfare aziendale potrebbero «creare un ponte con tutto il welfare territoriale, che deve essere necessariamente inclusivo. In caso contrario ci sarà un welfare di serie A e uno di serie B», prosegue il docente. Tra lavoratori garantiti e non, ma anche, e questo è l’altro grande tema, tra «grandi aziende strutturate per organizzare queste tipologie di servizi, e piccole e medie imprese, che poi sono la maggior parte nel nostro Paese, che farebbero fatica a offrire gli stessi servizi ai loro dipendenti», sottolinea Venturi.

Ci vuole un salto di qualità

Sarebbe necessario però, un salto di qualità importante perché il no- profit, che pure ha dimostrato una grande capacità di risposta ai bisogni e una grande creatività nell’individuare risposte nuove, oggi è «appiattito sul pubblico, al quale eroga servizi  che non è in grado di dare ai cittadini a prezzi bassi. Irrigidito in un contesto normativo fatto di convenzioni e accreditamenti dei bandi di gara che ne snaturano in maniera forte l’identità che era fatta di grande spontaneità nella risposta a determinati bisogni», afferma Venturi. Standard burocratico-amministrativi e non qualitativi, che hanno di fatto costretto il non-profit in un ruolo di «fornitore o sub fornitore di servizi pagati male e di bassa qualità, nella maggior parte dei casi».

La sfida al mondo no-profit, invece, per Venturi sarebbe quella di stare sul mercato e quindi di essere competitivi, «di offrire una risposta adeguata alla domanda e ritornare ad avere una sua forza facendo un investimento vero su competenze adeguate e sull’innovazione dei servizi», incalza Venturi, per il quale si potrebbe e si dovrebbe partire subito con quelli dedicati a minori e anziani non autosufficienti, che sono le due vere emergenze della società moderna. Contesti in cui il Terzo Settore potrebbe dare una risposta molto più flessibile (una sua peculiarità) e creativa rispetto ai tradizionali asili per bambini o alle strutture istituzionali residenziali o semi-residenziali per anziani. «La flessibilità di accesso alla rete di servizi è ancora oggi di fatto preclusa e invece il non profit potrebbe garantirla con la sua grande capacità di risposta ai bisogni delle persone», chiosa Venturi.

Al settore pubblico l’organizzazione del network di servizi

In questo scenario il ruolo pubblico dovrebbe favorirne l’organizzazione, «essere di governo e non di erogazione e di gestione», precisa il docente. In un’applicazione vera del principio di sussidiarietà. Un cambio di paradigma culturale molto forte, sul cui successo il professore però non scommetterebbe. Almeno non nel breve periodo: «L’espansione dello Stato ha fagocitato la domanda di bisogni di servizi e quindi ha indotto in qualche modo un comportamento di non attivismo. Ma i giovani oggi non si aspettano più niente dallo Stato o dalla società in termini di diritti, e l’uomo di fronte al bisogno tira fuori il meglio di sé. Quindi sono ottimista sul futuro e piuttosto scettico sul presente».

Al momento sono ancora poche le imprese del terzo settore che si stanno muovendo in maniera operativa in questa direzione, per lo più poliambulatori e cooperative. Nondimeno il mondo del non profit s’interroga da molto su questi temi. Valgano per esempio, le parole di Giuseppe Guerini, presidente di Federsolidarietà e portavoce dell’Alleanza delle Cooperative Sociali: «Ci siamo occupati per lo più di proposte finanziate dal pubblico mentre abbiamo sviluppato poco quelle forme pensate e lanciate dal privato sociale. Finora non abbiamo visto il terreno di innovazione che abbiamo a disposizione e in questo, il mondo delle Pmi, comparto che vale l’80% del sistema imprenditoriale italiano, è il settore cui dobbiamo guardare perché ha una forte domanda di tutela». Insomma il terreno da recuperare è molto.

About the Author /

03@mediainteractive.it