Pensioni, integrare è meglio che aspettare

Pensioni, integrare è meglio che aspettare

Se lo stato di salute del nostro sistema previdenziale è buono, con il passaggio al metodo contributivo l’esigenza di integrare la pensione con un fondo diventa fondamentale per pensionati presenti e soprattutto futuri.

 

Nel 2018 gli italiani hanno speso quasi 70 miliardi di euro per garantirsi privatamente l’accesso a prestazioni sanitarie, di assistenza e di previdenza complementare. Lo confermano gli ultimi dati raccolti dal centro studi Itinerari previdenziali nel sesto rapporto sul Bilancio del sistema previdenziale italiano. La prima voce di spesa è rappresentata dalla sanità out of pocket, circa 40 miliardi di euro.

 

Per pagare i contributi alla previdenza complementare, single e famiglie hanno speso in totale 14,8 miliardi. Al netto del risparmio fiscale, circa 11,2 miliardi di euro. Eppure, l’idea di mettere da parte dei soldi per garantirsi una pensione integrativa, che affianchi e si sommi all’assegno previdenziale, non è ancora in cima ai pensieri degli italiani.

 

Il nostro sistema previdenziale, nonostante le difficoltà nel far quadrare i conti pubblici, non è messo poi così male. Il rapporto pubblicato a marzo dal centro studi specializzato in materia previdenziale ne ha certificato “la buona salute”. Le entrate da contributi versati da lavoratori e imprese nel 2018 hanno superato i 200 miliardi di euro, a fronte di prestazioni pensionistiche pari a 204 miliardi, al netto dell’assistenza.

 

Se si considera che sulle pensioni i cittadini pagano all’erario oltre 50 miliardi di Irpef, si vede come il saldo di cassa per lo Stato risulti positivo. Non è detto, però, che ciò si traduca in un vantaggio per le tasche dei pensionati attuali e, soprattutto, futuri.

 

“La salute del sistema previdenziale è cosa diversa dalla quantità e qualità dei trattamenti previdenziali”. Sergio Spiller, Responsabile del Dipartimento Contrattazione della Cisl, pone l’accento sui fattori che, nonostante il quadro complessivo, stanno determinando una progressiva riduzione dei trattamenti individuali.

 

“Una prima riduzione dipende dal fatto che si andrà a esaurire il calcolo del trattamento pensionistico fatto con il metodo retributivo. Le pensioni calcolate sempre più con il metodo contributivo saranno più basse”, fa notare Spiller. Il sistema contributivo, tra l’altro, segue l’andamento del percorso di vita: continuità o meno del rapporto di lavoro, andamento del percorso di carriera, problemi di salute prolungati nel tempo.

 

“Oltre a questi fattori individuali sono stati introdotti altri meccanismi come la riduzione del coefficiente di trasformazione del montante contributivo (che viene ridefinito periodicamente in base all’aspettativa di vita) che renderanno le pensioni meno consistenti”, spiega ancora il sindacalista.

 

“Basta che l’indice di trasformazione diminuisca di qualche decimale, com’è avvenuto alla fine del 2018, perché l’insieme della pensione annuale venga a calare. Per tutti questi motivi, non è solo utile ma necessario, per avere un minimo di tranquillità, puntare alla costruzione di una pensione integrativa”.

 

Otto milioni di italiani iscritti ai fondi pensione

 

Nel 2017 il numero dei pensionati si è attestato a 16.041.852, in calo nel 2018 di circa 25mila unità. Sempre secondo il sesto rapporto sul Bilancio del sistema previdenziale italiano, oggi gli italiani iscritti ai fondi pensione sono quasi 8 milioni. Appena la metà dei pensionati. Il nostro Paese resta infatti ancora basso nella classifica dei Paesi Ocse e non Ocse per diffusione dei fondi pensione.

 

La conoscenza delle dinamiche effettive del sistema pensionistico è molto ridotta”, conferma Spiller. “Molte persone non hanno piena consapevolezza delle problematiche che rendono necessario costruirsi una previdenza integrativa. Si è abituati a pensare che il sistema pensionistico sia quello lineare e generoso di una volta. Dietro questi atteggiamenti individuali c’è un fattore culturale che pesa molto: scegliere di massimizzare i risultati nel presente senza pensare al futuro”.

 

Una spinta verso una maggiore adesione a forme di previdenza integrativa potrebbe venire anche dalle aziende, che potrebbero orientare i lavoratori in questa direzione anche con accordi che, attraverso i vantaggi fiscali previsti dalla legislazione, rendessero appetibile tale scelta.

 

Esistono già molti accordi di welfare aziendale che si muovono in questa direzione favorendo l’investimento di una parte dei premi per costituire o rafforzare forme di previdenza e sanità integrativa. L’assistenza sanitaria è infatti l’altro grande capitolo sul quale conviene interrogarsi per costruire certezze per il futuro.

 

Il rapporto di Itinerari previdenziali certifica che il costo dell’assistenza è aumentato negli ultimi 10 anni di 43 miliardi di euro, passando dai 73 miliardi del 2008 ai 116 miliardi del 2018. “Una società molto frammentata, caratterizzata da bisogni differenziati e da un invecchiamento progressivo, richiederà forme ulteriori di assistenza. La soluzione al problema dell’equilibrio dei conti non può essere quella di diminuire la spesa”, precisa Spiller.

 

Secondo il rappresentante della Cisl, anche qui c’è un problema di consapevolezza, oltre che di comportamenti individuali e riduzione degli sprechi. E un cambiamento di mentalità deve vedere il concorso di più soggetti: informazione pubblica, sindacato e imprese.

 

“Gli accordi di welfare aziendale prevedono già oggi in molte realtà la possibilità di trasferire quote di salario in benefit. È indicativo che ai primi posti ci siano previdenza complementare e sanità integrativa”, conclude Spiller. “Si tratta di riuscire a riconoscere la differenziazione di bisogni per individuare gli interventi più adeguati”.

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