A che gioco giochiamo

A che gioco giochiamo

La gestione delle diversità e dell’inclusione in azienda può essere analizzata e promossa anche con esperienze virtuali ispirate al mondo del gioco. L’idea si è tradotta in realtà col progetto Diversity@Work dietro al quale si muove una società tutta al femminile.

 

La decisione di prendere parte a una esperienza ludica presuppone in prima battuta che del gioco si accettino in toto le regole senza cercare di bypassarle a proprio piacimento e vantaggio. Insomma, a condizione che non si provi a barare. E questo vale a maggiore ragione quando si affronta non già un game puro e semplice bensì un’ esperienza di gamification. Ovvero ci si muova in un ambiente virtuale sì ma al tempo stesso studiato per ricreare fedelmente situazioni e interazioni tipiche della vita reale; e animato da intenti educativi dichiarati. È questo il caso di Diversity@Work, esperienza sviluppata dal team di Work Wide Women per prendere di petto le tematiche dell’inclusione negli ambiti aziendali. Utilizzata per stimolare determinate modalità di pensiero, la App prevede la presentazione di casi o micro-storie che cercano di replicare fedelmente il quotidiano di un’impresa e ai quali il personale accede in maniera rigorosamente anonima. Alle sue spalle l’azienda ideatrice ha una storia di ricerca sulle dinamiche dell’occupazione al femminile iniziata alla fine dello scorso decennio con il movimento Girls Geek Dinner. La fondatrice e CEO Linda Serra ne è stata fra le pioniere e questo le ha garantito una visibilità globale sfociata nella collaborazione con Google Italia e con l’Ambasciata degli Stati Uniti.

 

People manager per un giorno

Oggi Work Wide Women può presentare un ventaglio di corsi tra i quali quelli di welfare e orientamento al lavoro specificamente pensati per le donne. «Chi gioca», ha detto Serra a proposito di Diversity@Work, «assume il ruolo di people manager per un giorno col compito di risolvere le situazioni presentate dal team scegliendo tra le due opzioni a disposizione e cercando di tenere in equilibrio le varie metriche in modo da garantire un clima aziendale mite in cui i dipendenti si sentano accettati, valorizzati. In cui sentono di poter fare la differenza. Il game over si raggiunge quando le scelte fatte impattano troppo negativamente sugli indici di performance o Kpi e in azienda il clima è sbilanciato in negativo; o quando l’equilibrio tra le scelte è adeguato e il clima in azienda è buono. Quale che sia l’esito, il giocatore avrà sempre feedback contenenti consigli e spunti di riflessione».

 

Orientati a una mentalità inclusiva

 

Il gioco viene ceduto sotto forma di licenza e per giocare le aziende possono scegliere se accedere al sito di Work Wide Women o implementare l’accesso nella intranet aziendale. «Funziona da sé», ha detto Linda Serra, «ma per facilitarne l’utilizzo le imprese potrebbero informare i dipendenti dell’adozione dello strumento e invitarli a partecipare. Successivamente, in base ai dati aggregati ricevuti, potrebbero organizzare sessioni di valutazione (assessment) interne: un servizio che offriamo come follow-up e su richiesta».
Diversity@Work, ha però tenuto a sottolineare l’amministratrice delegata, «non ha lo scopo di insegnare, ma di orientare ogni player verso un atteggiamento mentale inclusivo». Di conseguenza «mira a innescare meccanismi di riflessione sui temi della gestione della diversità offrendo una visione semplice su situazioni che – apparentemente – possono sembrare complesse». È il messaggio di fondo a dover risaltare ed emergere in tutta la sua chiarezza: «Se sono gestite in maniera armonica», è l’opinione di Serra, «le differenze sono una risorsa e creano valore: per fare questo abbiamo inserito nel gioco quattro Kpi visibili nella barra orizzontale posta in alto dello schermo. Rappresentano l’impatto dei comportamenti e della comunicazione sul sistema, a quattro livelli. Le metriche (Clima, Management, Leadership, Team Skills) evidenziano come ciascuna risposta provochi una variazione nel sistema nel quale il giocatore viene a trovarsi in un determinato momento». Questi cambiamenti non sono mai completamente positivi né al 100% negativi: una risposta può avere un impatto positivo sulla variabile Management – «Perché è una risposta che indica la volontà di gestire in qualche modo il problema» – e al contempo un’influenza nulla sulla variabile Clima, «perché soddisfa le esigenze di alcuni ma ne scontenta altri». Valori positivi sono stati dati «alle risposte che aprono scenari di confronto guidati dall’attenzione al diversity management; negativi «alle risposte di chiusura o indifferenza alle diversità». Il valore zero corrisponde alla non influenza e all’assenza di impatto sul tema, in linea coi criteri usati nel primo documento dell’Unione Europea che propone una checklist per l’analisi del diversity management pubblicato nel 2012 e successivamente aggiornato.

 

L’importante è la voglia di mettersi in gioco

 

Se i dati dicono che la maggior parte delle grandi aziende in Italia è oggi attiva sull’inclusione con iniziative mirate di formazione manageriale, la domanda riguarda allora la possibilità di elevare o cambiare il livello di sensibilità dei dipendenti mediante un gioco.
«L’esperta di game design Jane McGonigal ha espresso estremizzando la convinzione che proprio i videogiochi possano salvare il mondo», ha esordito il professor Tommaso Buganza del Dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano, «ma la gamification allude a qualcosa di differente. Ovvero alla capacità di dare vita a esperienze in tutto e per tutto simili a quella ludica, ma con finalità di apprendimento». Certo è che se il traguardo è l’imparare allora il gaming può a pieno titolo vantare potenzialità superiori a quelle di qualsiasi altra metodologia didattica. Il merito è della condizione di trance agonistica nella quale i giocatori si trovano immersi quando danno il via alla partita. «Si tratta», ha detto Buganza a Tuttowelfare.info, «del cosiddetto stato di flow e cioè di uno stato di grazia che altre attività impiegano circa mezz’ora a stimolare, contro i circa 30 secondi di un gioco. Significa che tutto quel che si vive in una simile situazione è di gran lunga accelerato».
L’importante è che si abbia voglia di mettersi in gioco. «Creare uno scenario non è di per sé complicato», ha spiegato Buganza, «mentre lo è ingaggiare i partecipanti, coinvolgerli e convincerli a impegnarsi appieno. Da questo punto di vista è essenziale che in azienda il gioco non venga imposto e non sia esclusivamente connesso a logiche di premio». E che infine solleciti l’interesse di chi vi prende parte. «Così come accadrebbe con una consueta lezione frontale d’aula», è l’esempio di Buganza, «se il tema proposto non interessa agli interlocutori allora è molto difficile ottenere dei risultati; e dunque trasmettere nozioni». Questo vale per qualsiasi tipo di insegnamento o apprendimento, così come se una persona ha una visione radicata di tipo discriminatorio, sarà difficile che muti opinione interagendo con un qualsiasi tipo di applied game.
Che la gamification possa cogliere nel segno, secondo Buganza, lo dimostrano i casi di Paesi in via di sviluppo nei quali il paradigma ludico è stato decisivo per l’insegnamento dei cardini della microeconomia e la sua diffusione. In generale «grazie ai giochi si può imparare molto anche in relazione ai comportamenti delle persone: se siano, o meno, funzionali».

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