Welfare, sapere è potere

Welfare, sapere è potere

La condizione preliminare per aumentare il numero dei lavoratori che accede ai piani welfare è una comunicazione efficace. Le strategie per attrarre e profilare il potenziale bacino di pubblico usate dai colossi del web e del commercio elettronico potrebbero essere un esempio da seguire. Ma non solo.

 

I contenuti sono la discriminante fondamentale per estendere il numero dei dipendenti che oggi accedono ai servizi di welfare aziendale e la comunicazione fra i vertici delle imprese e i loro addetti è lo strumento essenziale per creare una proposta a pieno titolo mirata ed efficace. Lo conferma il secondo Rapporto che Eudaimon  ha redatto  in collaborazione con il Censis. Punto di partenza, come ha sottolineato Alberto Perfumo, Amministratore delegato di Eudaimon durante la presentazione dello studio, è la consapevolezza che attualmente una parte della forza lavoro usufruisce dell’offerta di welfare del settore privato perché ne è a conoscenza e può apprezzarne i benefici. Altri invece restano ai margini del gioco perché ne ignorano le regole. O perché nessuno si è rivelato in grado di insegnargliele. Non a caso il responsabile dell’area Politiche sociali del Censis Francesco Maietta ha descritto il Rapporto Buona comunicazione e welfare aziendale equo come un’«operazione-verità» che ha liberato il tema del welfare dagli «entusiasmi eccessivi».

 

La privacy non si tocca

 

Già lo scorso anno il Centro studi investimenti sociali aveva calcolato che solamente il 18% degli addetti nel privato aveva una nozione davvero precisa del welfare. E che allo stesso tempo, pur possedendo bouquet ampi e articolati le imprese lamentavano tassi di utilizzo tutto sommato insoddisfacenti. Segno questo delle lacune che minano alla base il dialogo fra le due controparti amplificando le difficoltà nel fare incontrare la domanda e l’offerta di servizi. L’idea per intensificare le relazioni e renderle fruttuose può allora essere mutuata dai colossi del web e del commercio elettronico le cui strategie per attrarre e profilare il potenziale bacino di pubblico si sono dimostrate nel corso del tempo vincenti. Per aspirare a interpretare con anticipo i bisogni dell’utenza è necessario tracciarne in primo luogo le abitudini e già qui pare che sorgano i principali intoppi. Secondo Maietta «il welfare può diventare il terreno su cui sperimentare paradigmi di comunicazione inediti», ma il nodo da sciogliere è quello del trattamento dei dati personali. Il 64% dei 1.000 dipendenti intervistati per il report si è detto «preoccupato» per esempio «per l’uso che ne fanno i social network». Significa che pensare di replicare nel contesto delle realtà aziendali il modello Amazon – solo per citare uno dei player dalle più efficienti politiche di tracking – potrebbe svelarsi operazione complicata. Regole e garanzie possono essere il mezzo adatto a tramutare la comunicazione «nell’ideale cavallo di Troia per incrementare la capacità di penetrazione del welfare nelle imprese» e a chiederle è il 79% degli interpellati; contro il 61% convinto che esse siano già oggi in vigore.

 

Do ut des

 

Ulteriori evidenze suggeriscano che le barriere comunicative fra management e lavoratori possano essere se non abbattute per lo meno scalfite. Stando alla statistica il 35% dei secondi sarebbe ben disposto a cedere un po’ di terreno nell’ambito dei dati personali pur di godere di servizi di welfare allineati alle sue esigenze. Guardando poi al solo versante dei millennial la quota si alza sensibilmente toccando il 51%. A questo punto si pone il dilemma di come coniugare l’efficacia del messaggio con il rispetto della privacy tenendo conto del fatto che secondo Perfumo «una cattiva comunicazione coincide con la discriminazione di alcuni». L’offerta di welfare deve ambire giocoforza a una certa personalizzazione ed essa può esser concretamente perseguita solo in cambio della volontaria abdicazione a una porzione di sfera privata: il destinatario deve essere necessariamente profilato. Al di là delle già citate «regole», un fattore di garanzia di un ragionevole uso delle informazioni sensibili è rappresentato, analogamente a quel che accade nelle transazioni commerciali, «dalla reputazione delle aziende e da quella dei provider specializzati». Il lignaggio insomma conta ed è dai brand di caratura globale comprovata che arrivano esempi d’interesse di gestione del welfare, che più di qualcosa debbono alle esperienze del customer relationship management.

 

Michelin ha scelto la Employee room

 

«Decisiva», come si è avuta occasione di leggere sulle pagine della ricerca, «è la costruzione di un rapporto stabile e duraturo col lavoratore» o meglio ancora di «una relazionalità fiduciaria costruita nel tempo» in fondo non dissimile da quella edificata con la clientela. Di qui ha preso il via l’azione del gruppo Michelin che ha puntato a riprodurre ai fini della comprensione dei bisogni dei collaboratori quanto fatto, per i clienti, con la Customer room. Ha preso così forma la Employee room che mira «a dare risposte ai dipendenti così come la  prima dà ascolto agli interlocutori di mercato» nella condivisibile convinzione che «gli uni sono importanti quanto gli altri». E, soprattutto, sapendo che «un dipendente ascoltato porta vantaggi e può diventare un generatore di idee, stimoli, progetti». Michelin ha potuto far leva su quella «reputazione» alla quale si è alluso già in precedenza e su un livello di engagement della forza lavoro vicino al 90%. La Employee room affianca la preesistente linea telefonica dedicata alla risoluzione delle questioni etiche ed è stata preceduta dall’introduzione di una casella di posta elettronica personalizzata per tutti i dipendenti, autentico filo diretto con la direzione Hr.
Sull’ideale tavolo della stanza-impiegati finiscono «dubbi, perplessità e questioni inerenti la relazione stessa con l’impresa» a partire da «retribuzioni, assicurazioni, uso della carta di credito» o l’organizzazione di iniziative comuni. Dubbi a cui un team di esperti interni (tra cui l’Amministratore delegato e l’Hr manager), conosciuti dal personale, risponde mediamente nell’arco di 10 giorni. Le domande più complesse vengono però gestite dall’organizzazione global del gruppo che ha il compito, appunto, di dirimere le criticità più complicate. In questo ultimo caso, però, i tempi di risposta si allungano. E per diffondere la conoscenza della Employee room  tra i dipendenti il prossimo passo a cui l’azienda sta pensando è quella di creare degli ambasciatori, personale comune, che alla macchinetta del caffè  come in altre aree comuni dell’azienda fanno proseliti fra i colleghi raccontando quella che è stata la loro esperienza. L’esperimento per aumentare l’ascolto dei dipendenti e migliorare la comunicazione con loro è partito ai primi di ottobre e per ora, assicurano dall’azienda,  sta andando bene.

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