La fabbrica felice va oltre il QI

La fabbrica felice va oltre il QI

Le aziende sono fatte di relazioni interne ed esterne. Lavorare per migliorarle e per eliminare i conflitti è uno dei punti cardine del welfare. Per raggiungere l’obiettivo una delle strade da percorrere è quella dell’intelligenza relazionale. Ecco come e perché.

 

Stare bene in azienda, creare un ambiente di lavoro armonico dove tutti riescono a operare senza conflitti e con il massimo rendimento. Sviluppare, insomma, un modello di fabbrica felice rimettendo la persona e i suoi bisogni materiali e immateriali al centro dell’azienda è uno dei punti cardine su cui si basa il welfare aziendale. Pura utopia? Non tanto. Per raggiungere l’obiettivo alcune aziende hanno pensato di introdurre al loro interno un manager della felicità, altre quello della pace. Una delle prime a farlo è stata Google  seguita poi da altre importanti realtà come Zappos, azienda che vende  scarpe online, che è stata così soddisfatta del lavoro fatto sulla felicità al suo interno da fondare addirittura una società di consulenza esterna chiamata Delivering happiness (Consegna felicità), con tanto di  Chief happiness officer, un manager che viaggia per diffondere i principi della felicità e altre figure specializzate nella materia.
Lo stesso ha fatto Plasticity Labs, società Hi tech nata da una start up chiamata L’epidemia del  sorriso, che ha affermato di  sostenere un miliardo di persone nel loro cammino verso la felicità sia nella vita personale sia in quella professionale.
Sempre negli States Shaw Achor, un insegnante dell’Università di Harvard ora gira il mondo  insegnando alle grandi compagnie internazionali come trasformare la soddisfazione dei propri dipendenti in un vantaggio competitivo. A questo proposito una delle regole principali che insegna alle aziende è quella di avviare al loro interno una “igiene della felicità”. Così come ci laviamo ogni giorno i denti, secondo Achor, dobbiamo quotidianamente allenarci a scrivere e-mail positive e ad avere pensieri positivi.
Ma secondo gli esperti un’altra strada che le imprese possono percorrere per sciogliere le tensioni interne e fare spazio a un benessere socio-relazionale a cui sempre più spesso si aspira anche in Europa, Italia compresa,  è superare il concetto tradizionale di intelligenza, quella per intenderci legata al QI, per focalizzarsi, invece, sulla intelligenza relazionale. Solo così, infatti, sarà possibile migliorare la vita nelle organizzazioni sociali e, dunque, aziendali.

 

L’intelligenza è una qualità relativa

 

Il primo a parlare di intelligenze multiple fu Howard Gardner, professore dell’Università di Harvard, che intorno agli anni ‘80 del secolo scorso, nel suo libro Frames of mind. The theory of multiple intelligences, spezzò il paradigma classico dell’intelligenza, aggiungendo a quella tradizionale linguistica e logico-matematica altre dimensioni. Del resto, oggi più che mai, «Una persona non può essere definita più o meno intelligente di un’altra», afferma convinto Dario Simoncini, Professore Associato di Organizzazione aziendale presso Dea, Dipartimento di Economia Aziendale dell’Università Gabriele D’Annunzio di Pescara e fondatore insieme a Marinella De Simone di Texture società benefit. «Vanno prese in considerazione le caratteristiche delle organizzazioni, i contesti, la specificità delle relazioni, i risultati attesi». L’intelligenza deve essere dunque valutata come una qualità relativa «la cui efficacia può essere esaminata solo in relazione allo svolgersi di un’interazione tra me e un’altra persona», aggiunge Simoncini.
Quattro sono le intelligenze relazionali che vanno individuate all’interno della propria azienda e alimentate in modo opportuno. Di queste due sono interpersonali: emotiva e sociale; e due eco-sistemiche: percettiva e collettiva.

 

Empatia e rispetto dei ruoli per appianare le divergenze

 

Ma di cosa si tratta nel dettaglio? «L’intelligenza emotiva è la capacità di riconoscere e utilizzare in modo consapevole le proprie emozioni, comprendere quelle dell’altro e facilitarne lo sviluppo costruttivo», interviene De Simone che oltre a essere Ceo di Texture società benefit è anche presidente del Complexity Institute. In pratica una persona ha una buona intelligenza emotiva quando è in grado di gestire le proprie emozioni tenendo sotto controllo quelle negative (invidia e rabbia) per dare più spazio a quelle positive (gentilezza ed empatia). «In questo modo si sviluppa la fiducia e la collaborazione con l’altro», aggiunge De Simone. L’intelligenza sociale, invece, è la capacità di riconoscere ed essere consapevole dei ruoli sociali all’interno del gruppo dove ci si trova sia esso un team di lavoro o un’azienda. «Avere una buona intelligenza sociale significa adattarsi alle diverse situazioni, proporsi attivamente in un’organizzazione per affermare in modo coerente il proprio ruolo con i colleghi di pari livello e subalterni, così come con i propri superiori», spiega Simoncini.

 

Visione e lungimiranza

 

C’è poi l’intelligenza percettiva che è la prima delle due eco-sistemiche ed è quella che ci consente di capire ciò che sta accadendo «qui e ora e di valutare gli effetti della nostra azione», sintetizza De Simone, mentre quella collettiva (la seconda delle eco-sistemiche) ci «permette di prevedere cosa potrebbe succedere immaginando scenari e dinamiche collettive. Questo non significa avere la sfera di cristallo», sottolinea Simoncini, «ma essere in grado di immaginare gli effetti delle dinamiche che si stanno svolgendo e in funzione di quelle pensare a cosa fare affinché si avverino. Quella che banalmente potremmo definire lungimiranza, ovvero la capacità di anticipare dinamiche collettive nel tempo».
Ognuno di noi possiede queste 4 intelligenze che spesso attiviamo in modo diverso a seconda dei contesti in cui ci troviamo o del bisogno che abbiamo. Il punto è imparare ad attivarle in modo coerente affinché le relazioni tra le persone siano più efficaci. Come? «Il primo passo è fare survey organizzative all’interno dell’azienda per capire che tipo di intelligenze vengono usate al suo interno sia a livello individuale sia a livello aggregato, in determinati contesti» , suggerisce De Simone. «Sui dati raccolti si può poi avviare un percorso di training con coach specializzati. Questi ultimi potranno suggerire alle persone le competenze necessarie per attivare le intelligenze, o capacità, relazionali».

 

Il business ci guadagna

 

Dopotutto, come diceva Aristotele, l’uomo è un animale sociale, per questo scoprendo e potenziando le intelligenze relazionali al loro interno le imprese possono smussare i conflitti e creare un microclima di cooperazione da cui partire per raggiungere ulteriori ambiziosi obiettivi. Come ha dimostrato uno studio di Boyatzis condotto sui senior partner di una grande multinazionale americana della consulenza in base al quale quelli con buone competenze collegate all’ intelligenza emotiva e relazionale coordinavano unità che portavano un fatturato superiore: 3 milioni di dollari contro gli appena 900.000 dollari/anno di chi aveva una bassa flessibilità.

 

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