La riscoperta del welfare condiviso

La riscoperta del welfare condiviso

La crisi economica e le difficoltà incontrate dal welfare pubblico hanno riportato in auge i  meccanismi di mutua assistenza per lungo tempo dimenticati  a favore di una logica più individualistica. Cosa sono e come funzionano.   

 

La badante di condominio e la baby sitter condivisa. Le associazioni rionali e le social street. E ancora i gruppi di mutuo aiuto, i gruppi di acquisto solidale, gli orti urbani, le co-abitazioni, le piattaforme territoriali, le biblioteche aperte e i cortili sociali. Sono alcune delle declinazioni del cosiddetto welfare collaborativo, una nuova forma di assistenza che vede protagonisti i cittadini. Persone che direttamente o grazie alla presenza di un intermediario, mettono reciprocamente a disposizione spazi, tempo, conoscenze e abilità per ottenere risultati utili per tutta la comunità. Nel nostro Paese esperienze di questo tipo sono abbastanza nuove ma, complice la crisi economica, si stanno sviluppando sempre di più. In questo nuovo paradigma a cambiare è il meccanismo di produzione dei servizi, non più calati dall’alto, come nelle forme più tradizionali di welfare statale, ma messi a disposizione dagli stessi destinatari.

 

La riscoperta del  mutuo soccorso

 

Insomma, sono i cittadini in prima persona a creare i servizi, per se stessi e per tutta la collettività. Un esempio su tutti è quello della badante di condominio, una figura introdotta in alcune realtà abitative di Milano. Nel capoluogo lombardo in alcuni palazzi popolari lavorano assistenti familiari che si occupano di più anziani contemporaneamente, grazie a un accordo fra famiglie, servizi sociali, cooperative accreditate e agenzie per il lavoro. In questo modo le persone sole o non autosufficienti possono contare su un aiuto quotidiano senza spendere la cifra necessaria a pagare una badante esclusiva. «L’idea alla base di questo modello è che i beni collettivi, anche quelli privati, possono essere messi a disposizione attraverso diverse modalità. Fra queste ci sono forme di collaborazione fra soggetti diversi, in una situazione di parità», spiega David Benassi, docente di Sociologia dei processi economici all’università Bicocca di Milano. «Queste forme di mutuo aiuto portano benefici non solo alle persone che fanno parte di questo meccanismo, ma all’intera collettività».

 

Non solo servizi ma anche valore aggiunto

 

Proprio qui sta la forza del welfare collaborativo: la collaborazione fra i cittadini permette di ottenere risultati che diventano un valore aggiunto per moltissime persone. È il caso delle social street: gli abitanti di una stessa via si mettono in rete sulle piattaforme social, diventando una vera e propria community. All’interno del gruppo si scambiano idee e proposte. Ma anche beni e servizi, così come aiuto concreto in caso di bisogno. «Molto interessante è anche il caso delle associazioni di quartiere», prosegue l’esperto. «I residenti che per esempio si mettono d’accordo per creare un nuovo giardino attrezzato non ottengono solo un’area verde a disposizione della popolazione, ma anche la creazione di una rete in grado di produrre capitale umano». In tutti questi casi semplici cittadini mettono in comune esperienze, risorse, conoscenze e capacità per realizzare progetti condivisi. Riuscendo a ottenere risultati molto più ampi rispetto a quelli possibili agendo in modo isolato.

 

6 le aree dove il welfare collaborativo è particolarmente attivo

 

A fare luce su questo fenomeno è stato il primo Rapporto sul welfare collaborativo battezzato #Welco. Il progetto è stato promosso da Irs in partnership con Cgil, Spi Cgil e Fnp Cisl Lombardia, tre cooperative sociali (Genera, La Cordata e il Melograno), le Acli milanesi e il Comune di Milano. E ha permesso di capire che questa nuova forma di welfare è molto attiva in sei aree: aiuto fra le famiglie, hub territoriali, esperienze di co-abitazione, piattaforme digitali e mobilità. «Al momento è ancora presto per ottenere dei dati certi»,  precisa Luca Pesenti, docente di Sistemi di welfare comparati all’università Cattolica di Milano. «Le esperienze nel nostro Paese sono ancora molto giovani e quindi è difficile fare un bilancio. Quello che è certo è che questi scambi peer to peer stanno progressivamente aumentando anche in Italia».

 

Obiettivo: creare un servizio pubblico

 

La logica non è molto lontana da quella della sharing economy, ma si basa su un punto di partenza diverso. Nel primo caso l’esigenza è di tipo economico: condividere una casa o un viaggio per risparmiare. Nel secondo caso la volontà è quella di creare un servizio pubblico e di tessere legami. «Un caso emblematico è quello degli orti urbani, che permettono a tante persone, soprattutto anziane, di produrre frutta e verdura e contemporaneamente di creare una comunità», va avanti Pesenti. «Ma anche quello dei Gas, i gruppi di acquisto solidali». Esperienze più o meno recenti, certo. Ma destinate con ogni probabilità a consolidarsi. «Questa nuova forma di cooperazione mutualistica è stata per lungo tempo dimenticata, a favore di una logica più individualistica», conclude l’esperto. «Con la crisi economica e le difficoltà incontrate dal welfare statale è cominciata la riscoperta di questi meccanismi di mutuo aiuto fra le famiglie».

 

Spazio Agorà, un caso da imitare

 

Le esperienze attualmente attive nel nostro Paese sono numerose. Una delle più eccellenti è lo Spazio Agorà, inaugurato nel 2009 a Quarto Oggiaro, periferia di Milano. Si tratta di uno spazio polifunzionale fortemente voluto da soggetti del terzo settore e cittadini, spaventati dalla desertificazione della zona. Oggi questo luogo di aggregazione offre servizi a mamme con bambini piccoli, ragazzi e adolescenti, ma anche aiuto psicologico alle persone più fragili e sostegno all’integrazione degli stranieri. Lo spazio di fatto accoglie i cittadini del quartiere, permette loro di incontrarsi e conoscersi e così crea legami e coesione sociale. E tutto questo grazie alla collaborazione e alla partecipazione attiva delle famiglie che qui non sono solo fruitori di servizi, ma anche creatori in prima persona. Del resto, secondo l’ultimo rapporto Censis, il 60% della popolazione ha concreatamente paura della povertà e teme il rischio che questa possa crescere nelle periferie delle grandi metropoli dove fragilità urbane, a volte cronicizzate, si sovrappongono a nuove vulnerabilità tipiche dei nostri giorni. Realtà come questa possono contribuire a cambiare le cose partendo dal basso.

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