La solitudine professionale: il ruolo delle aziende nel combatterla
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La solitudine professionale: il ruolo delle aziende nel combatterla

In questi anni, tra smart working e uso massiccio della tecnologia, non è solo il lavoro ad essere cambiato, ma anche le persone che lavorano. Queste ultime avvertono sempre più la necessità di riprendere in mano il proprio tempo e la propria vita. Una reazione spesso associata al super lavoro richiesto dalle aziende, nonostante la flessibilità accordata ai dipendenti: spesso si chiede una dedizione assoluta, tradotta in straordinari perenni, in disponibilità illimitata, in stress da affaticamento lavorativo. Tutto questo porta le persone a controbilanciare questo modello adottando una visione più incline a rispettare la qualità di vita ed il proprio scopo personale. Il risultato finale può essere quello di sentirsi sempre più isolati dal resto dell’organizzazione e cadere nella cosiddetta “solitudine professionale”. Questa viene definita come “carenza relazionale percepita nel luogo di lavoro”, che si traduce in sintomi di ansia, depressione, burnout e riduzione della motivazione, e che può portare alle “grandi dimissioni” o al “quiet quitting”.

Secondo un recente report condotto dall’Osservatorio della content factory di Bip, in collaborazione con il Centro di eccellenza Human Capital, che ha intervistato un campione di 355 persone di varie seniority e competenze, ben 8 professionisti su 10 hanno sperimentato la solitudine sul luogo di lavoro. È un sentimento vissuto soprattutto da coloro che hanno appena iniziato il proprio percorso professionale o che si trovano nel mid-level (tra i 3 e i 5 anni di esperienza). In queste fasce di seniority la percezione di solitudine risulta essere rispettivamente del 39% e del 30% e va diradandosi con il proseguimento della carriera.
La solitudine professionale può avere vari impatti nei contesti organizzativi, tra cui una diminuzione della produttività, un aumento del turnover, una bassa soddisfazione dei collaboratori, una mancanza di innovazione e una bassa reputazione dell’azienda.

Ma cosa sta all’origine di questo fenomeno? Sostanzialmente la cultura organizzativa ed il clima aziendale, il modo in cui è organizzato il lavoro, le relazioni tra persone, la gerarchia e lo stile di leadership, il processo decisionale, la gestione dell’errore e del dissenso. Osservando più nel dettaglio i risultati della ricerca, il 40% degli intervistati indica il lavoro da remoto come la causa principale della solitudine professionale in quanto annulla i rapporti sociali, mentre il lavoro ibrido (5%), risulta essere la modalità meno impattante perché mantiene l’ufficio come luogo di socialità e di incontro.

Le relazioni in sé però non sono sufficienti, devono essere qualitative: il 30% indica infatti come causa della solitudine professionale i rapporti con il proprio team, mentre il 22% quelli con i propri manager. Segno che manca ancora quel senso di coesione e vero team building.
Per il 25% degli intervistati invece la fonte del loro malessere risiede nella cultura aziendale, percepita come poco inclusiva e partecipativa, troppo competitiva e basata unicamente sulla performance.

Questo malessere tocca anche i manager, in quanto quotidianamente al centro di richieste e aspettative da parte della linea gerarchica, dei collaboratori e dei colleghi. I manager sono chiamati a decisioni repentine, spesso con carattere di urgenza, e sono soggetti al peso di grandi responsabilità e forte stress. A questo si aggiunge un carico di lavoro importante, affiancato dalla necessità di bilanciare il tempo dedicato alla vita famigliare.

Come uscire da questo circolo vizioso? Il report evidenzia il ruolo fondamentale che hanno le aziende nell’affrontare seriamente questo fenomeno e attivarsi per creare un ambiente di lavoro stimolante, accogliente e socialmente coinvolgente. È necessario creare un ambiente in cui ogni lavoratore si senta coinvolto nella costruzione di un obiettivo aziendale comune e valorizzato per le sue capacità che lo contraddistinguono. Per questo oggi, sostengono gli autori del report, non possiamo più parlare di work-life balance (cioè quell’equilibrio tra lavoro e vita privata che in realtà non si riesce mai del tutto a raggiungere), ma bisogna puntare al concetto di work-life integration: cioè evitare di considerare il lavoro e la vita privata come due piatti di una bilancia, che di fatto non si incontrano mai, ma di concepirli come un tutt’uno integrata nella vita degli individui. Con quest’approccio il lavoratore dovrebbe essere incentivato a creare sinergie tra tutte le aree che fanno parte della vita: lavoro, casa, famiglia, comunità, benessere personale e salute. Per adottare questo approccio, le aziende devono essere disposte a modificare la loro cultura e le loro politiche, per prendersi cura dei dipendenti e delle loro esigenze che cambiano nel corso della vita; d’altra parte i lavoratori sono chiamati a una maggior consapevolezza della loro responsabilità nel contribuire al raggiungimento degli obiettivi aziendali.

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