L’occasione del Terzo settore per rispondere ai nuovi bisogni dei cittadini

L’occasione del Terzo settore per rispondere ai nuovi bisogni dei cittadini

Il numero dei professionisti attuali nel Terzo settore, soprattutto in ambito sanitario, non è sufficiente a coprire la domanda dei cittadini. Lo conferma Franca Guglielmetti, Presidentessa di Cadiai

 

L’epidemia ha messo a nudo tutta la vulnerabilità della nostra società. Ha però anche evidenziato quanto persone e organizzazioni siano dipendenti tra loro e quanto le relazioni sociali possano fare la differenza nel resistere all’urto delle crisi, contenendone l’impatto sul benessere individuale e collettivo. I servizi di welfare pubblici e privati – compreso il mondo del no profit – si occupano proprio di benessere dei cittadini, e la loro integrazione potrebbe giovare all’intera società.

 

È questo uno degli obiettivi del Codice del Terzo settore (D.lgs 117/2017), aggiornato nella primavera 2021, che ha provveduto al riordino e alla revisione complessiva della disciplina vigente in materia, sia civilistica sia fiscale, definendo il perimetro del Terzo settore e gli enti che ne fanno parte. Di conseguenza, sono state aggiornate anche le tipologie e la quantità delle professionalità richieste.

 

Il numero dei professionisti attuali nel Terzo settore, infatti, non è sufficiente a coprire la domanda dei cittadini. Lo conferma Franca Guglielmetti, Presidentessa di Cadiai, cooperativa sociale bolognese che realizza servizi di tipo socio-sanitario ed educativo alle persone, sorveglianza sanitaria, di sicurezza dei lavoratori e formazione sulla sicurezza alle aziende. Guglielmetti fa riferimento soprattutto agli infermieri professionali, di cui c’era bisogno anche prima della pandemia, ma per ovvi motivi ora la domanda è ancora più alta: “Molti infermieri, quando entrano, si trattengono poco nelle cooperative perché c’è più attrattività da parte dell’ente pubblico, soprattutto con i concorsi dell’ultimo anno”.

 

Integrare competenze digitali e di comunicazione

 

La carenza evidenziata è, per la Presidentessa di Cadiai, strutturale e deriva da un errore di programmazione alla base fatto dalle istituzioni che, per creare i corsi universitari o di formazione a numero chiuso, hanno sempre censito i bisogni degli enti pubblici senza contare quelli del Terzo settore. “Non avendo personale sanitario ora non possiamo accogliere utenti nelle nostre sedi: paradossalmente abbiamo letti vuoti”, fa notare Guglielmetti.

 

A parte le conoscenze tecniche in ambito sanitario, servono poi nuove competenze legate ai processi di digitalizzazione e transizione al digitale, soprattutto nel caso di tecnologie assistive del paziente e strumenti di telemedicina. “C’è un tema di cultura tecnologica che va promossa: abbiamo seguito un corso erogato dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa dove ci hanno mostrato sistemi di monitoraggio, di domotica e telemedicina. È stato interessante, ma servono le competenze e le persone giuste per usarli”, racconta l’esperta.

 

Un altro tema molto sentito nell’ultimo anno, e contenuto anche nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), è la prossimità di servizi di welfare e assistenza per le persone non autosufficienti, di tutte le età. Gli enti no profit hanno giocato e giocano un ruolo attivo nell’assistenza locale, ed è sempre più richiesta la figura di educatore territoriale. “Un educatore territoriale deve avere tantissime competenze, ma soprattutto soft, anche perché le offerte di welfare sono molto frammentate tra pubblico e privato, ed è compito dell’operatore comunicare con loro, farli conoscere e unire i servizi per gli utenti”, chiarisce la Presidentessa di Cadiai. “Questa figura deve però essere riconosciuta in ambito istituzionale, perché esistono corsi universitari ad hoc ma a volte ma non è percepita (e quindi riconosciuta) nemmeno dagli stessi enti di welfare”, avverte.

About the Author /

elisa.marasca@este.it