L’occasione persa per costruire una società migliore
Negli ultimi due anni le organizzazioni hanno appreso che le persone, a differenza di un tempo, chiedono al welfare di focalizzare l’attenzione sulla questione benessere, rimettendo al giusto posto la vita privata
C’era una volta – non molto tempo fa, per essere precisi – un intero Pianeta concentrato ad affrontare la più drammatica pandemia conosciuta, fino ad allora, dagli esseri umani. L’Italia, Paese (forse a ragione) considerato tra i più indisciplinati, con un inaspettato atteggiamento di profonda coscienza civica, si stava dimostrando tra i più virtuosi nel rispettare le difficili misure di contenimento del virus imposte dai vertici sanitari: se in Cina ci volevano i militari per non far uscire di casa i cittadini, dalle nostre parti – salvo qualche rara eccezione – erano bastati i messaggi del Governo, sommati alla grande paura della malattia e alle terribili immagini di ciò che accadeva negli ospedali.
Non tutti, però, avevano la fortuna di poter restare tra le mura domestiche; per far sentire la vicinanza a queste persone, chiamate a continuare a lavorare per il bene della collettività, i più fortunati, da casa, cantavano sui balconi, esponevano i cartelloni con il famigerato slogan “andrà tutto bene” ed elogiavano chi, con eroico spirito di abnegazione del proprio ruolo, faceva la sua parte. E guai a non rispettare le regole: in perfetto stile della Repubblica democratica tedesca (Ddr), gli italiani arrivavano addirittura a denunciare alle autorità chiunque avesse un comportamento tale da compromettere gli sforzi della comunità.
Insomma, l’Italia aveva riscoperto un senso civico che, ovviamente sommato agli immani sforzi della macchina organizzativa sanitaria, ha permesso di superare i continui picchi del virus. E mentre ancora dovevamo uscire dalla pandemia, eravamo tutti convinti che non avremmo abbandonato le ‘buone abitudini’ apprese. Finché a inizio aprile 2022 – due anni dopo il primo lockdown totale – visto l’andamento nel Paese della malattia, il Governo ha aperto la stagione della cosiddetta ‘nuova normalità’, nella quale le misure di contenimento della pandemia sono state ampiamente riviste in favore di una maggiore libertà degli individui e della comunità. E siamo tornati quelli di un tempo.
Alle aziende si chiede più attenzione al benessere
Durante la pandemia abbiamo appreso numerose lezioni; le aziende, per esempio, hanno compreso che la digitalizzazione è inevitabile per affrontare le incertezze che, se un tempo credevamo concretizzarsi di rado, oggi sappiamo avvenire con preoccupante costanza: appena abbiamo intravisto la luce in fondo al tunnel del Covid, è arrivata la guerra in Ucraina con tutte le ripercussioni economiche, imprevedibili fino a poche settimane fa… Ma le organizzazioni hanno anche appreso che le persone, a differenza di un tempo, vogliono focalizzare l’attenzione sulla questione benessere, rimettendo al giusto posto la vita privata, a volte troppo sacrificata dal lavoro; e siccome ogni persona declina il concetto in modo discrezionale, ecco che le aziende hanno iniziato ad approfondire la tematica, per rispondere in modo adeguato alle richieste del personale.
Il welfare aziendale – come detto già in varie occasioni – è stato (ma lo è tuttora) lo strumento per dare concretezza alle possibili risposte alle necessità delle persone; e affinché sia efficace, i responsabili dell’area HR ascoltano ancor più che nel passato le richieste dei collaboratori. Si è compreso che i servizi ‘ludici’ di welfare possono lasciare spazio a quelli sanitari e di cura: perché sarà pure interessante il giro in mongolfiera a spese dell’azienda (ma poi qualcuno l’ha mai fatto per davvero questo giro?), ma ben più importante è tutelare la salute.
Rientra in questa dimensione anche l’assetto organizzativo del lavoro da remoto, chiesto a gran voce da tanti lavoratori, un po’ per paura di contrarre il virus e un po’ perché – siamo sinceri – è ben più comodo lavorare da casa (sempre che non si abbiano i figli da accudire). Fa nulla se poi queste stesse persone – Smart working addicted – frequentano tanti altri luoghi ben più ‘pericolosi’ degli uffici, almeno a livello di potenzialità di contagio, con buona pace delle strategie e degli investimenti in benessere delle aziende… Dov’è finito, allora, quel senso civico che ci aveva caratterizzato durante la fase più drammatica della pandemia?
Le azioni dei singoli si ripercuotono sulla comunità
Tornando ancora indietro nel tempo, non possiamo dimenticarci di quando, poco dopo i primi allentamenti delle restrizioni post primo lockdown, con i passaggi dalla zona rossa a quella arancione e poi gialla e la possibilità di uscire di casa, ci bastava sentire qualcuno starnutire o tossire per guardarlo con terrore e nello stesso tempo lanciare sguardi di ammonizione per aver solo pensato di lasciare la propria abitazione. Eravamo tutti molto spaventati e, si sa, che la paura è tra i sentimenti più potenti che esistano, capace di influenzare profondamente le azioni delle persone. Al di là di casi di reazioni esagerate per qualche colpo di tosse – purtroppo esistono ancora numerose malattie respiratorie, ugualmente serie, oltre al Covid – la comunità condivideva il principio che le attività dei singoli potessero avere ripercussioni sull’intera collettività; meglio allora un po’ di isolamento in più piuttosto che mettere a rischio la salute degli altri. Ma la nostra memoria si è rivelata ben più corta del previsto, perché è bastato che qualcuno lasciasse intendere che la pandemia fosse finita (per la cronaca, non ne siamo ancora usciti!) non solo per abbassare la guardia, ma per rimettere in disparte quel senso civico che avevamo riconquistato.
Chi frequenta gli asili nido e le scuole materne – gli unici istituti frequentati dalla fascia di popolazione che, non per scelta, non può essere vaccinata (il vaccino è destinato solo agli Over 5) – da settimane è alle prese con l’incubo contagio. Non che prima i bambini fossero immuni alla malattia, ma almeno quella ritrovata educazione civica convinceva spesso i genitori che con un banale sintomo influenzale fosse più prudente, per la collettività, tenere a casa il figlio piuttosto che farlo entrare a contatto con i compagni di classe.
Oggi, invece, la scena è che a scuola ci si deve andare, a prescindere dalle condizioni fisiche dei bambini. Raffreddore? Mal di gola? Febbriciattola? “È un malanno di stagione”, dicono mamme e papà, con la famosa laurea in Medicina presa sui social network. E visto che il tampone anti-Covid non è più obbligatorio – basta l’autocertificazione! – nessuno si azzarda neppure a pensare di sottoporre i figli alla tortura. Il risultato? Proprio oggi mia figlia (vaccinata) è entrata in classe dopo un compagno che continuava a starnutire, accompagnato dalla madre a sua volta con un forte raffreddore. E con profondo senso civico – che ormai ognuno declina e orienta rispetto alle proprie necessità (c’è una mamma, autoproclamatasi virologa, che nella chat di WhatsApp ha illuminato il gruppo dei genitori del nido, spiegando che il Covid non si trasmette attraverso l’esposizione alle particelle che emettiamo quando parliamo…) – ho preso le mie precauzioni: una toccata al cornetto portafortuna e la speranza che quel raffreddore fosse solo… allergia di stagione.