Ora è tempo di economia civile

Ora è tempo di economia civile

L’economia politica appartiene al passato. Per superare le disuguaglianze nelle relazioni di mercato deve prevalere il concetto di mutua assistenza. Ciò significa mettere i bisogni, le condizioni e l’identità dell’altro al centro del rapporto d’affari.

 

«Come hanno scritto gli studiosi di Harvard in un bellissimo rapporto sul welfare aziendale, “the business of the business is not just business”. Sì, è vero, il business delle imprese non è soltanto fare affari». Stefano Zamagni, ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore e uno dei massimi esperti di Welfare, ha aperto a Bologna la Scuola dell’economia civile per dare al Paese nuovi modelli di sviluppo, idee e forme a concetti come la Big Society o la Sussidiarietà, che faticano a passare dalla teoria alla pratica. «Il problema», dice il professore bolognese «è che per cambiare le mappe cognitive delle persone ci vuole tempo. Più facile stravolgere le tecniche produttive che la testa della gente. Ma qualcosa si muove: dal prossimo 2 giugno sarà infatti operativo il Codice del Terzo settore, mentre le aziende erogano strumenti di welfare. Ma io vedo una rottura tra gli ultra quarantenni e gli under 40: i primi, quando gli parli di welfare aziendale non capiscono. Gli altri, che non hanno accesso né alle leve del potere né al welfare statale, si muovono già in quest’ottica. Quando toccherà a loro comandare, le cose cambieranno».

 

Lei ha rilanciato il concetto di “economia civile” per superare la dicotomia tra mercato e welfare.
Quello dell’economia civile non è un concetto, ma un paradigma, è un modo di vedere l’economia. È nata in Italia, tra Milano e Napoli, poi è stata messa in ombra dall’economa politica. L’idea centrale alla sua base è quella che lo sviluppo non passa per una crescita schizofrenia, a differenza di quanto avviene con l’economia politica stessa, perché non separa la dimensione commerciale da quella interpersonale.

 

Qual è il risultato?
Che cambia il paradigma dell’economia politica. La quale guarda soltanto all’interesse personale, da raggiungere a ogni costo. Poi, successivamente, ma solo nella sfera delle relazioni private o familiari, mette in capo valori come la simpatia o la benevolenza, che però scattano soltanto in secondo momento. Questo paradigma ha mostrato tutti i suoi imiti dopo due secoli, perché ha creato una società schizofrenica, perché aumenta il reddito insieme con le diseguaglianze, accresce il progresso ma distrugge l’ambiente, salgono gli utili delle persone, ma diminuisce la felicità e così via. E tutto questo si ripete nel welfare.

 

Che cosa avviene, invece, con l’economia civile?
In primo luogo supera questa schizofrenia, perché determina e impone che anche nelle relazioni di mercato debba prevalere il concetto di mutua assistenza, mentre per Smith vige quello di mutuo vantaggio. Mutua assistenza vuol dire che io, all’interno del nostro rapporto d’affari, non posso mai dimenticare la tua condizione, la tua identità, devo partire da lì. Di conseguenza non posso cercare di fregarti il più possibile, salvo poi restituirti qualcosa dopo. Ma soltanto se sono buono.

 

La morale?
Oggi per superare i nodi, le contraddizioni di questa crescita schizofrenica, non c’è altra soluzione che quella dell’economia civile. A meno che l’obiettivo non sia quello di eliminare l’economia di mercato. A meno che non si voglia andare verso la pianificazione, ma allora il discorso cambia. Perché l’unico modo per definire l’economia di mercato è proprio seguire l’economia civile a scapito dell’economia politica.

 

E il welfare aziendale dove si colloca?
È un’espressione dell’economia civile. Nata due secoli fa, è stata riproposta in una chiave non soltanto statale negli ultimi anni. Questo perché gli imprenditori hanno capito che continuando con lo sviluppo schizofrenico in atto, i primi a rimetterci sarebbero stati loro stessi. Così hanno compreso che non basta più dare ai propri dipendenti un salario equo. Ma bisogna appagare il bisogno di soddisfazione di ognuno. Io posso anche pagarti tremila euro al mese, ma se ti faccio sentire un imbecille, prima lavori male e contribuisci al calo della produttività, poi lasci l’impresa e io perdo importanti competenze. Ecco perché Apple ha introdotto la figura dello Chief happiness officer. E gli americani sono persone pragmatiche.

 

Un tempo le grandi industrie costruivano i villaggi per i loro dipendenti. Poi, perché certe pratiche sono andate dimenticate?
Parliamo però di strumenti nati precedentemente al welfare state, che si sviluppa dopo la Seconda guerra mondiale, quando nasce il principio che lo Stato deve prendersi cura del cittadino dalla culla alla bara. Nell’ultimo ventennio, invece, si è tornati a parlare di welfare aziendale perché la potenza dello Stato sociale ha dimostrato la sua insufficienza. Quindi, in un certo senso, viene “complementarizzato”.

 

Molti però accusano che così si distrugga il welfare state.
Il problema non è quello. Il welfare aziendale oggi in Italia è soprattutto uno strumento per tagliare i costi dell’impresa, perché viene finanziato dallo Stato. Ma il vero welfare aziendale si ha, quando non si intravede nessun aiuto da parte pubblica. Proprio come fece Adriano Olivetti, che spontaneamente decise di avviare con i propri dipendenti un rapporto di lavoro non più basato su logiche tayloristiche o fordiste. Ecco perché sono d’accordo con quelli che mugugnano e parlano di welfare aziendale “truccato”, finanziato con i soldi alla Stato e non con quelli delle aziende».

 

Questo significa che le aziende stanno facendo ancora poco sul piano del welfare?
In termini generali sì, però registriamo tante interessanti esperienze su questo fronte grazie alla nascita delle società benefit, le quali si pongono due obiettivi paritari: accanto agli utili ci deve essere l’utilità sociale. In questo modo non si massimizza più il profitto. Per esempio si sono dati questa forma giuridica le farmacie comunali di Firenze. Sono duecento, a riprova che certi passaggi sono più importanti se nascono dal basso e se sono legati al territorio.

 

Intanto le grandi aziende si prendono in carico il restauro del Colosseo o la costruzione di un villaggio in Africa, ma guardano al welfare soltanto come un benefit salariale…
Non è vero. Certo dai grandi, che in Italia sono pochi, ci vorrebbero più responsabilità e più spinta in questa direzione. E molte cose stanno già cambiando da quando è diventato obbligatorio per le imprese sopra i 500 dipendenti rendere noto il loro impatto sociale. In seguito l’obbligo verrà esteso anche alle realtà con meno personale. Ciò vuol dire che le aziende dovranno rispondere delle loro azioni davanti al territorio e all’opinione pubblica.

 

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