Pil e pensioni, gli effetti del coronavirus
Pensioner looking at checks, calculating expenses for utilities and purchases

Pil e pensioni, gli effetti del coronavirus

Le ricadute economiche della diffusione del coronavirus hanno portato a rivedere le previsioni di crescita per il 2020. La frenata avrà un impatto anche sul sistema previdenziale: oltre a intervenire nel rapporto tra spesa pensionistica e Pil, avrà effetti anche sulla rivalutazione dei contributi per le future pensioni.

 

 

Oltre alle gravi conseguenze di tipo sanitario, il temuto covid-19 può avere anche serie ricadute economiche, sia per un temuto ritiro prolungato dei consumi sia per un conseguente riverbero sulle attività aziendali.

 

Per questo motivo, l’agenzia di rating Moody’s ha di recente rivisto le previsioni di crescita di base del 2020 per le economie del G20 al 2,1%, 0,3 punti percentuali in meno rispetto alla linea di base precedente. Con particolare riferimento al nostro Paese, proprio per effetto del coronavirus Moody’s ha ridotto di un punto percentuale pieno le stime sul Pil per il 2020, portandole a -0,5% dal +0,5% ipotizzato in precedenza.

 

L’andamento del Prodotto interno lordo non è solo il fondamentale indicatore sintomatico della “salute economica” di un Paese, ma è anche un importantissimo “attore” del nostro sistema previdenziale.

 

L’andamento del rapporto spesa pensioni/Pil

 

Il rapporto tra spesa per le pensioni e Pil costituisce il termometro della sostenibilità finanziaria dell’ordinamento pensionistico italiano che, come è noto, si basa sulla ripartizione: i contributi versati “pagano” le pensioni dei quiescenti. È utile, perciò, rivedere le stime della Ragioneria generale dello Stato “a bocce ferme”.

 

Dopo la crescita nel triennio 2008-2010, imputabile esclusivamente alla fase acuta della recessione, il rapporto fra spesa pensionistica e Pil ha risentito negativamente dell’ulteriore fase di recessione degli anni successivi con effetti che si propagano per tutto il quadriennio 2012-2015. A seguito della doppia recessione, il rapporto tra spesa pensionistica e Pil si attesta nel 2013 su un valore più elevato di circa 2,6 punti percentuali rispetto al livello pre-crisi del 2007, passando dal 13,3% al 15,9%. Nel triennio 2016-2018, in presenza di un andamento di crescita più favorevole e della prosecuzione graduale del processo di innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento, il rapporto fra spesa pensionistica e Pil decresce fino a convergere al 15,3%.

 

Nel triennio successivo il rapporto risente delle norme introdotte nel 2019, in particolare la cosiddetta Quota 100, crescendo fino a un massimo relativo del 15,9%. La transitorietà della norma implica una successiva decrescita che, si calcola, porterà il rapporto al 15,6% nel 2029. Si prevede che aumenterà velocemente negli anni successivi, fino a raggiungere il picco del 16,1% nel 2044. Negli anni seguenti, il rapporto tra spesa pensionistica e Pil è destinato a iniziare una rapida discesa fino a toccare quota 15,3% nel 2050 e attestarsi al 13,1% nel 2070, con una decelerazione pressoché costante nell’intero periodo.

 

La rapida riduzione del rapporto fra spesa pensionistica e Pil, nella fase finale del periodo di previsione, è determinata dall’applicazione generalizzata del calcolo contributivo, che si accompagna alla stabilizzazione e successiva inversione di tendenza del rapporto fra numero di pensioni e numero di occupati. Il rapporto spesa pensioni/Pil, che rappresenta uno degli indicatori chiave presi in considerazione anche nelle interlocuzioni con Bruxelles in tema di manovre finanziarie, è già “pressato” nel numeratore per effetto del forte invecchiamento della popolazione: sempre citando Moody’s, nei prossimi dieci anni l’aumento dell’età media potrebbe spingere l’indebitamento dell’Italia attorno al 5% del Pil. Se anche il denominatore dovesse subire ripercussioni, occorrerebbe monitorare con estrema attenzione l’evoluzione del rapporto.

 

Il calcolo contributivo

 

Il Pil costituisce anche il fattore di rivalutazione nel metodo di calcolo contributivo. Ai contributi che il lavoratore e il datore di lavoro versano agli Istituti previdenziali viene infatti riconosciuta una rivalutazione annuale collegata all’andamento del Prodotto interno lordo.

 

La rivalutazione è pari alla media delle variazioni del Pil nell’ultimo quinquennio e viene comunicata all’inizio di ogni anno dall’Istat e dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Il coefficiente viene applicato ai contributi versati, rivalutati e accantonati al primo giorno dell’anno, con esclusione dei contributi versati l’anno precedente e del contributo di uscita del lavoratore che, quindi, non sono oggetto di alcuna rivalutazione.

 

Come sottolinea il recente Rapporto di Itinerari previdenziali, il Pil fatto registrare a partire dall’inizio del nuovo secolo è sempre apparso al di sotto delle ipotesi formulate nel momento in cui fu introdotto il metodo contributivo, ovvero nel 1996, quando la crescita media del Pil era dell’1,5% annuo. L’eventuale mancata crescita del Pil potrebbe allora inficiare in maniera sensibile l’adeguatezza dei futuri trattamenti previdenziali.

 

Per avere un’idea più concreta si può fare riferimento a un approfondimento dell’Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici (Ania), secondo cui, a parità di contributi versati, ogni punto in meno di Pil equivale dopo 35 anni a una rendita pensionistica più bassa del 16%.

 

Diviene allora ancora più importanze il ruolo che i piani di welfare aziendale possono assumere a sostegno delle future pensioni, prevedendo tra i possibili servizi anche le forme previdenziali complementari di tipo collettivo. Queste possono sostenere, anche con il contributo del datore di lavoro, il Tfr, i premi di risultato e, dunque, il futuro tenore di vita durante la quiescenza.

 

* Lorenzo Giuli è un esperto di previdenza complementare

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